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“Espejo” di Marco Pejrolo – Dal 28 Ottobre al 28 Novembre – Quito/Ecuador

28 ottobre, 2014 - 18:00 Università Cattolica, Centro Culturale

“Espejo” di Marco Pejrolo

Dal 28 Ottobre al 28 Novembre

Espejo è stato un incontro.

L’incontro tra lo sguardo del fotografo italiano Marco Pejrolo e la realtà complessa e affascinante di un paese come l’Ecuador.
Nella migliore tradizione della street photography, l’obiettivo della macchina fotografica diventa specchio della realtà, cattura in un istante un frammento del reale e lo riflette, in un altro luogo e in un altro tempo, allo sguardo dello spettatore.
L’occhio del fotografo osserva, la sua anima è mossa a compassione (cum patire: sentire con), si dispone docile al contatto con la realtà e ne rimane impressa. È la luce a scolpire gli scatti, ma la superficie sensibile (ancor prima che la pellicola o il sensore di una macchina fotografica) è la coscienza.
La ricerca dell’attimo da inquadrare, del frammento che facesse vibrare la coscienza, è il richiamo che ha guidato Marco Pejrolo per le strade dell’Ecuador. Un viaggio intenso, ricco, a tratti tellurico. Espejo ne è il riflesso.

Le vibrazioni di quel viaggio, hanno continuato a farsi sentire anche quando, lontano dall’istinto dello scatto, dal tempo convulso e concitato della strada, il compito è stato quello di “scrivere”, comporre gli scatti da esporre in un discorso, seguendo il filo rosso che lega le singole tessere del mosaico. E qui un elemento sopra tutti si è imposto: i volti delle persone e il loro sguardo sulla realtà che li circonda. Gli occhi delle persone sono diventati a loro volta specchi in cui si poteva veder riflessa la vita. Occhi spalancati, sorridenti, nobili, severi, nascosti, chiusi. In tutti loro si scorge o si immagina un bagliore dell’esistenza. Quella luce è il lampo nel quale Marco Pejrolo chiede allo spettatore di specchiarsi.

Espejo è stato un incontro. E vuole continuare ad esserlo.

Per questo la mostra fotografica Espejo si presenta con una richiesta di interazione tra lo spettatore e le fotografie esposte. In ciascuna di esse è possibile vedere o intuire un paio di occhi di fronte ai quali fermarsi come di fronte ad uno specchio, il tempo necessario per scorgere in quello specchio il frammento di sé che quello sguardo riflette, o cosa quegli occhi nascondono nel profondo della loro luce. E scriverlo.
Il titolo di ciascuna fotografia, infatti, sarà scelto tra le parole che il pubblico avrà voluto lasciare come traccia della loro riflessione di fronte a ogni singola immagine, a ogni singolo sguardo allo specchio.

Dopo i successi delle mostre del ciclo Stre3t Photography e Poethree a Monaco, Torino, Montevideo e Roma, il fotografo Marco Pejrolo raccoglie in 50 scatti inediti, le impressioni distillate durante il suo incontro con l’Ecuador.

Marco Pejrolo

“Cominciamo col dire che sono un fotografo poco canonico, almeno per quel che riguarda la sua formazione. Non ho frequentato l’accademia di belle arti, non ho fatto corsi di fotografia. Ho imparato guardando i grandi maestri, leggendo moltissimo, studiando, sbagliando, correggendomi e non smetto di farlo, mai. E poi in me convivono da sempre, e si nutrono a vicenda, due grandi passioni: il teatro e la fotografia. Ho cercato di coltivare entrambe parallelamente, anche se in periodi diversi della mia vita ha finito per prevalere a volte l’una a volte l’altra.
Faccio teatro da più di trent’anni. Come attore e come regista. Col percorso di formazione dell’attore e con l’esercizio costante in palcoscenico ho allenato “muscoli” che hanno nomi come empatia, umiltà, costanza, ascolto, fiducia, rigore, coraggio, immaginazione. Ho lottato con nemici che si chiamano pregiudizio, presunzione, prevaricazione, preclusione, preconcetto. Dalla più confortevole e più riflessiva posizione del regista ho imparato ad apprezzare la complessità, a mescolare codici differenti per farli convergere al centro di un unico messaggio, a gestire processi creativi anche molto articolati, a entrare in empatia con le persone con le quali lavoro, ad accettare la responsabilità di un processo destinato a confrontarsi, alla fine, con un pubblico e col suo giudizio. Ho imparato a guardare lo spazio scenico come una pellicola da impressionare, per poi lentamente comporre al suo interno l’immagine destinata allo spettatore. Immagine fatta di corpi, volti, gesti, parole, voci, forme, colori, movimenti, musiche, ritmi. Ho sperimentato il potere narrativo ed evocativo della luce, la sua capacità di scolpire figure e volti, svelare e celare, in un gioco di contrasti che danno l’illusione di qualcosa simile all’onnipotenza. E al teatro devo molto, anche come fotografo.
La passione per la fotografia si è nutrita di tutto questo percorso fatto in palcoscenico. Per certi versi ne è stato il completamento. Talvolta una compensazione. La dimensione continuamente “pubblica” a cui è esposto (direi sovraesposto) un attore o un regista, per me ha avuto bisogno di un contrappeso di senso opposto. Qualcosa che mettesse me al riparo, mi nascondesse al mondo e mi lasciasse il lusso di essere spettatore di altri attori, questa volta inconsapevoli. Così nella confortevole solitudine del mirino di una macchina fotografica potevo osservare una nuova complessità, nuovi personaggi, nuovi giochi di luce, nuove coincidenze, nuove vicende umane. Il desiderio di ricomporre tutto questo in una nuova storia, scelta, immaginata da me, si è rivelato estremamente naturale. Facevo il regista giocando con frammenti catturati nella realtà. Selezionati e bloccati da uno scatto. Il mio.
Prima era la ricerca della coincidenza nella realtà a guidare la mia mano nell’attimo dello scatto. Ero maggiormente attirato dalle casualità che creavano geometrie inattese o riflessi ingannevoli, simili a elaborati fotomontaggi, solo che erano fatti non da un computer, ma dalla materia riflettente di una pozza d’acqua o di una finestra. Specchi naturali. Il gioco che sapeva di barocco del rimpallarsi la luce, mi affascinava. Mi divertiva. In fondo mettevo in risalto quello che esisteva davvero, era solo questione di angoli di appostamento. A me diventava visibile quello che ai distratti passanti sfuggiva inesorabilmente. E a questo tavolo da gioco del caso, molto di rado erano invitate le persone reali. Preferivo vincere le mie partite con la luce usando poster, manichini, alberi, nubi, macchine e grandi vetrine. Avversari più docili e meno instabili di umore.
Le persone sono entrate nei miei scatti piano piano, quasi di soppiatto. Fino a diventare i miei soggetti preferiti. Forse anche grazie alla attività di ritrarre volti in studio, dove tornavo a maneggiare la luce come in un piccolo teatrino privato.
Intanto cresceva la mia attività teatrale e con essa le opportunità di visitare angoli lontani nel mondo: Argentina, Cile, Uruguay, Stati Uniti, Canada, Sud Africa, Messico, Cuba, Guatemala, Ecuador. Tutti luoghi in cui sarei tornato spesso. Il mio occhio era stimolato come non mai e la “facilità” del digitale ha finito per ubriacare la mente che avrebbe dovuto guidare l’occhio nel selezionare frammenti. Tanto forte questo smarrimento da costringermi a tornare indietro. Lasciare il digitale per tornare a scattare con una medio formato, pellicole 120 mettendomi nella posizione meno comoda (anche dal punto di vista ergonomico), per riaffermare il primato del fotografo sullo strumento. Lezione che da allora non ho più dimenticato, anche a distanza di anni quando sono tornato allo scatto fatto di bit. Utilissimi anche quando sono entrati nell’uso comune oggetti come l’iPhone, fedele compagno in molte avventure.
Ora mi muovo solo con la mia Leica M9 e la mia Nikon D800. Una coppia perfetta per la street photography, disciplina nella quale non smetto di sperimentare e di scoprire nuovi orizzonti. La mia vera passione.”

Traduzione in lingua spagnola

Espejo fue un encuentro

El encuentro entre la mirada del fotógrafo italiano Marco Pejrolo y la realidad compleja y fascinante de un país como Ecuador.
En la mejor tradición del street photography, el objetivo de la cámara fotográfica se convierte en un espejo de la realidad, captura en un instante un fragmento de la misma y lo refleja, en otro lugar y en otro tiempo, en la mirada del espectador.
El ojo del fotógrafo observa, su alma siente compasión ( cum patire: sentir con ), se dispone dócil al contacto con la realidad y la deja impresa. Es la luz quien esculpe las imágenes, pero la superficie sensible (antes aún que la película o el visor de una cámara fotográfica) es la conciencia.
La búsqueda del instante por encuadrar, del momento que hace vibrar la conciencia, es el motivo que ha guiado a Marco Pejrolo por las calles de Ecuador. Un viaje intenso, rico, por momentos telúrico. Espejo es el reflejo.
Las vibraciones de aquel viaje, han continuado haciéndose sentir incluso cuando, lejos del instante del disparo, del tiempo convulso y agitado de la calle, la tarea ha sido la de “escribir”, componer las imágenes para hacer posible la exposición de un discurso, siguiendo el hilo rojo que une las distintas piezas del mosaico. Y aquí un elemento por encima de todos se ha impuesto: los rostros de las personas y sus miradas sobre la realidad que los circunda. Los ojos de estas han sido a la vez espejos en los que se podía ver reflejada la vida. Ojos sorprendidos, sonrientes, nobles, severos, tímidos, cerrados. En todos ellos se aprecia o se intuye el resplandor de la existencia. Esa luz es el destello en el que Marco Pejrolo pide al espectador que se espeje.
Espejo fue un encuentro. Y quiere continuar siéndolo.

Por esto la muestra fotográfica Espejo se presenta como una búsqueda de interacción entre el espectador y las fotografías expuestas. En cada una de ellas es posible ver o intuir un par de ojos frente a los que detenerse, igual que frente a un espejo, el tiempo necesario para vislumbrar en ese espejo el fragmento de uno mismo que esa mirada refleja, o lo que la luz de esos ojos esconde en lo más profundo de sí misma. Y escribirlo.
El título de cada fotografía, de hecho, será elegido entre las palabras que el público habrá querido dejar como traza de sus reflexiones de frente a cada imagen única, a cada mirada única en el espejo.
Después de los éxitos de las muestras del ciclo Stre3t Photography y Poethree en Munich, Turín, Montevideo y Roma, el fotógrafo Marco Pejrolo recoge en cincuenta imágenes inéditas, las impresiones destiladas durante su encuentro con Ecuador.

Comenzaremos diciendo que soy un fotógrafo poco ortodoxo, al menos en cuanto a la formación se refiere. No he estudiado en la Academia de Bellas Artes ni he hecho cursos de fotografía. He aprendido mirando a los grandes maestros, leyendo muchísimo, estudiando, cometiendo errores, rectificándolos y sin dejar de hacerlo jamás, nunca. Y después en mí conviven desde siempre, nutriéndose entre ambas, dos grandes pasiones: el teatro y la fotografía. He intentado cultivarlas paralelamente, aunque si en distintos periodos de mi vida ha acabado por prevalecer, a veces, la una sobre la otra.
Hago teatro desde hace más de treinta años. Como actor y como director. Con mi intensa dedicación a la formación del actor y con el ejercicio constante sobre el escenario he desarrollado “músculos” que tienen nombres como empatía, humildad, constancia, escucha, confianza, rigor, coraje, imaginación. He luchado contra enemigos que se llaman prejuicio, presunción, prevaricación, exclusión, impedimento, preconcepto. Desde la más confortable y más reflexiva posición de director he aprendido a apreciar la complejidad, a mezclar códigos diferentes para hacerlos converger al centro de un único mensaje, a gestionar también procesos creativos muy articulados, a entrar en sintonía con las personas con las que trabajo, a aceptar la responsabilidad de un proceso destinado a confrontarse, al final, con un público y con su juicio. He aprendido a mirar el espacio escénico como un negativo, para después componer dentro de éste la imagen destinada al espectador. Imágenes hechas con cuerpos, rostros, gestos, palabras, voces, formas, colores, movimientos, músicas, ritmos.
He experimentado el poder narrativo y evocativo de la luz, su capacidad de esculpir figuras y rostros, desvelar y ocultar, en un juego de contrastes que consigue generar la ilusión de algo parecido a la omnipotencia. Y al teatro debo mucho, también como fotógrafo.
La pasión por la fotografía se ha nutrido de todas estas experiencias vividas sobre el escenario. En cierto sentido las dos se han completado y se han compensado. La continua dimensión “pública” a la que está expuesto (diría sobrexpuesto) un actor o un director, me ha creado la necesidad de un contrapeso de sentido opuesto. Algo que me protegiese, que me escondiese del mundo y que me permitiera el lujo de ser espectador de otros actores, esta vez no conscientes de serlo.
Así desde la confortable soledad del visor de una cámara fotográfica podía observar una nueva complejidad, nuevos personajes, nuevos juegos de luz, nuevas coincidencias, nuevas vicisitudes humanas.
El deseo de recomponer todos estos retazos de vida en una historia elegida e imaginada por mí, se ha revelado extremadamente natural. En esos momentos el director jugaba con los fragmentos capturados en la realidad. Seleccionados e inmortalizados por un disparo. El mío.
Antes era la búsqueda de la coincidencia en la realidad la que guiaba mi mano en el instante del disparo. Me sentía mayormente atraído por las casualidades que creaban geometrías inesperadas o reflejos engañosos, similares a las conseguidas en los fotomontajes, sólo que en este caso sin la necesidad de un ordenador; se trataba únicamente de la propia materia reflejada en un pozo de agua o en una ventana. Espejos naturales. El juego de toque barroco que se producía al rebotarse la luz en estas superficies me fascinaba. Me divertía. En el fondo revelaba lo que existía verdaderamente. Sólo tenía que estar apostado en ángulos diferentes.
A mí me resultaba visible aquello que a los distraídos transeúntes se les escapaba inexorablemente. Y a esta mesa de juego de azar, muy raramente estaban invitadas las personas reales. Prefería vencer mis partidas con la luz usando posters, maniquíes, árboles, nubes, coches y grandes escaparates.
Adversarios más dóciles y menos inestables, en cuanto al humor se refiere.
Las personas han entrado en mi objetivo y en mis disparos poco a poco, casi a escondidas, hasta convertirse en mi argumento preferido. Quizás también gracias a mi dedicación al retrato en estudio, donde volvía a manejar la luz como en un pequeño teatro privado.
Mientras tanto crecía mi actividad teatral y con ella la oportunidad de visitar ángulos lejanos del mundo: Argentina, Chile, México, Uruguay, Estados Unidos, Canadá, Sudáfrica, Cuba, Guatemala, Ecuador. Todos ellos lugares a los que he regresado a menudo.
Mi ojo se encontraba estimulado como nunca y la “facilidad” del digital acabó por emborrachar complemente una mente que habría debido guiar el ojo al seleccionar los fragmentos. Tan fuerte llegó a ser esta dispersión que me obligó a volver atrás. Dejar el digital, disparar de nuevo con una cámara de medio formato, con una película de 120, y colocarme otra vez en una posición mucho menos cómoda, física y mentalmente hablando, y así reafirmar la primacía del fotógrafo sobre el instrumento.
Grandes lecciones que desde entonces no he olvidado, a pesar de los años que hace que volví al disparo hecho de bit. Utilísimas también cuando han entrado en el uso común objetos como el iPhone, fiel compañero de muchas aventuras.
Ahora me muevo sólo con mi Laica M9 y mi Nikon D800. Una pareja perfecta para la street photography, disciplina en la que no dejo de experimentar y de descubrir nuevos horizontes.
Mi verdadera pasión.

Marco Pejrolo

La video intervista:

https://www.youtube.com/watch?v=DOdUx98LViE

Alcuni scatti inviati dopo la pre-inaugurazione del Centro Cultural – Quito

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