Informativa Cookie

Rolling Stones 2012!

07 dicembre, 2012 - 11:45

Buenos Aires, 15 ottobre 2012.

Trovo un internet-point. E’ l’ultimo giorno, anzi, sono le ultime ore del tour di un mese in America latina.
Tra un’ora si parte verso l’aeroporto di Ezeiza. Scrivo e rispondo alle ultime mail dall’Italia, poi guardo l’ora, mi restano ancora venti minuti.
Allora mi fermo, giro un po’ su internet. Cerco Rolling Stones, ricordo che deve uscire un loro disco per celebrare i 50 anni di carriera e vado sulla loro pagina.
Stupore! Annunciano non solo il disco ma quattro concerti, due a Londra e due a New York!
Prima data: 25 novembre.
E’ il mio compleanno! E’ un segno (almeno mi giunge così), devo andarci!
Sarà il regalo di compleanno che mi farò. Il recente tour di Assemblea Teatro è stato un successo, questa estate è passata senza ferie, ritorno in Italia e mi attendono settimane convulse con un nuovo debutto e tutte le stagioni che stanno per avviarsi. Non ho titubanze, devo farmi questo regalo che per me, che ho girato il mondo, vuol dire per di più vedere per la prima volta Londra.
I biglietti sono in vendita da domani.
Aiuto! Sarò su di un aereo intercontinentale, in volo.
Lascio il computer e chiedo al gestore la disponibilità di una cabina telefonica. Compongo il numero di Paulo, spero risponda! E’uno dei pochi internauti capace di darmi certezza. Gli spiego il problema e si mette in azione.
I 20.000 posti della prima sera vengono venduti in 7 minuti ed io 15 giorni dopo in portineria trovo la busta con i biglietti.
Il 25 novembre 2012 sarà uno splendido anniversario per entrambi, per me e per i Rolling Stones.

Renzo Sicco

 

Londra, 25 novembre 2012

Sono le 20.30 ed è appena terminato un breve video dove sulle note di fondo di “It’s only rock’n roll” alcune icone della musica quali Elton John, o Iggy Pop, sintetizzano in poche battute la cinquantennale carriera dei Rolling Stones. Scende il buio nella 02 Arena e il pubblico, come sempre in queste situazioni, è elettrizzato, tutto proteso verso il grande palco disegnato a bocca proprio come l’irriverente logo della “più grande rock’n roll band”.
I fari volteggiano sugli spettatori e tagliano coi loro fasci l’immensa sala.
Dagli altoparlanti sale compulsivo e travolgente il tappeto ritmico di “Sympathy for the Devil” mentre da differenti entrate fanno ingresso oltre cento percussionisti che imbracciano enormi tamburi da carnevale brasiliano indossando maschere con la sbeffeggiante lingua rollinstoniana.
E’ un vortice di ritmo quello che invade l’Arena e si miscela alla sorpresa che esalta tutti i presenti. L’atmosfera è esplosiva! Tornato il buio si accende il palco e appaiono i Rolling Stones e i Rolling Stones iniziano il concerto di celebrazione della loro storia cinquantenaria con una canzone dei Beatles, quella “I wanna be your man” che Lennon e MacCartney scrissero per loro quando Jagger e Richards non componevano ancora e i Rolling erano una band di cover dei classici del blues e del rock’n roll.
Incredibilmente infatti furono proprio i Beatles alla fine del 1963 a dare una mano determinante agli Stones. I Beatles allora in testa alle classifiche stavano conquistando tutto. I Rolling volevano dare seguito al loro positivo debutto con un singolo dal forte impatto anche commerciale. Colsero al volo l’opportunità di proporre una canzone inedita offerta loro da Lennon e McCartney. Il pezzo era stato estorto grazie alle insistenze del loro primo manager Andrew Loog Olkham nel corso di una serata molto “alcolica”. Lo incisero per la Decca Records diretta da Dick Rowe che era divenuto famoso per aver rifiutato i Beatles e che dunque non volendo perdere una seconda occasione firmò di malavoglia il contratto con gli Stones.
Sentirla adesso, in apertura di questo concerto mi fa tornare in mente un articolo del New Musical Express degli anni ’70 che parlando dei Rolling Stones scriveva “può anche trattarsi di intelligenza calcolata, ma sicuramente è intelligenza.”
Ed infatti il pubblico, che con loro è quella storia, esplode letteralmente tutto in piedi mentre i fantastici quattro scalpitano soli sul palco proprio come una band degli anni del beat. Poi sparano “Get off of my cloud” e “It’s all over now” ed è tutta un’epoca che si srotola davanti ai presenti.
La stessa che ho percepito in mattinata percorrendo Piccadilly Circus, Portobello Road e Canden Town, simboliche zone dove all’inizio degli anni sessanta accadde tutto e il mondo cambiò.
Il grande incrollabile Mick lo dice, anzi ci prova, e gli si strozza in gola “sono passati 50 anni ed è fantastico. Siete ancora qui, grazie” ed è Keith ad offrirgli salvezza con le inconfondibili note di chitarra di “Paint it black” poi “Gimme shelter”, ospite a duettare Mary J. Blige, e ancora “Wild horses” e “All down the line”.
Ed ecco personificarsi sul palco un sogno: Jeff Beck, che con Eric Clapton e Jimi Page è stato uno dei più grandi chitarristi di quell’epoca, il primo possibile sostituto di Brian Jones. Non accadde allora e accade stasera per una versione indimenticabile di “I’m going down” una vera esplosione di chitarre perché Ron Wood e Keith Richards non possono essere da meno.
Il pubblico è già a livelli da palpitazione e la birra scorre a litri, Jagger è adrenalina pura e lancia una versione strepitosa di “Out of control” a cui fa seguito “One more shot”, poi annuncia “questa è una canzone che ho cantato poco” e imbracciata la chitarra lancia il riff della recente “Doom and gloom”, che anche dal vivo non sfigura e tiene il livello del concerto che alla faccia di chi era pronto a descriverli troppo vecchi per stare ancora sulla scena dimostra che “le pietre” continuano a rotolare.
Quando le riprese finiscono in primi piani, sul grande schermo le rughe sui volti sono così marcate da poterli rendere ridicoli, ma la voce e le chitarre sono quelle di sempre e loro sanno muoversi come se il tempo non contasse. L’antica sapienza li rende immutabili e immarcescibili.
D’altronde siamo qui per celebrare uno dei simboli di una generazione e questa vitalità caccia via ogni possibile nostalgia. E questo accade soprattutto perché ci si diverte ancora. Come dice Keith “Un diavolo di generazione”.

Ecco apparire Bill Wyman, il quinto elemento presente alla data di fondazione. Insieme giocano con “It’s only Rock’n roll”, alla cui composizione partecipò anche David Bowie, trascinando tutti gli spettatori in coro per poi sparare “Honky tonk women”.
Immediatamente penso che nell’estate del ’69 fu il mio primo 45 giri.
Jagger presenta la band, coristi, tastiere e fiati e ad uno ad uno poi Wood, Watts e, uscendo di scena, Richards.
E’ il suo momento e canta “Before they make me run”. Poi prova a ringraziare, ma finisce come sempre in una rugosa risata e allora eccolo ingranare una coinvolgente “Happy”.
Jagger torna al centro del palco ma non è solo, con lui c’è Mick Taylor, il vero sostituto di Brian Jones, il comprimario di “Let it bleed”, “Beggars banquet”, “Sticky fingers”, “Exile on main street”, ovvero quella manciata di album che agli inizi degli anni ’70 ha reso eterni gli Stones. Entrò 19enne nel gruppo, adesso si lancia in una versione incredibile di “Midnight rambler” che fa decollare l’O2 Arena verso altri pianeti. Un blues elettrico, violento e sensuale, un suono basilare dove l’atmosfera prevale sulla musica stessa ridotta ai suoi elementi essenziali.
Le chitarre si inseguono e Taylor lancia assoli sempre più devastanti.
Tutti quelli che hanno partecipato alla storia dei Rolling sono riuniti su questa enorme scena, oltre le offese, le divisioni, le ripicche, le divergenze, per dire davvero “questa storia siamo noi”, “siamo sempre esistiti nel tempo”, “e per tutti voi che ci avete ascoltato e seguito, che avete vissuto e danzato con noi, sia festa!” Così piazzano “Miss you”, uno dei più grandi singoli di sempre, un capolavoro in termini di ritmo e di esecuzione, poi a raffica “Start me up”, “Tumbling dice”, “Brown sugar”, il primo singolo inciso per la loro casa discografica, e i 20.000 scattano tutti in piedi, in un’onda elettrica potentissima.
Ma non c’è fine perché indossato un mantello di piume nere Mick incarna ancora una volta “Sympathy for the devil” in un torrente ipnotico, ritmico e infernale come dai remoti anni ‘70 gli Stones per primi hanno saputo inscenare.
Tutta l’Arena canta mentre Ron e Keith corrono imbracciando e arpionando le chitarre sulla pedana a forma di lingua mentre Mick sculetta giovanilmente in ogni parte del palco.
Chi li voleva cotti, fuori gioco o oltre il tempo massimo, resta spiazzato. Erano e restano la più grande rock’n roll band del pianeta, come non ne fossero esistite altre.
Hanno dalla loro una carriera che coincide con la storia e li vede primi, e unici, ad aver percorso 50 anni di un mondo in corsa che ha travolto tutto ma non ha saputo intaccare il loro sound a cui si sono abbeverati tutti quelli venuti dopo.
Due ore sono corse via, esattamente il tempo che da sempre i Rolling Stones regalano nei loro show. Il pubblico lo sa e l’ovazione è quella di un saluto grato giacché anche a settant’anni non hanno né ridotto la durata, né lesinato l’energia.
Stasera hanno inscenato il concerto perfetto. Ricco e possente con una scaletta indiscutibile che come un tornado si è abbattuta sui presenti caricando energia ad ogni brano.
L’Arena si oscura ma le luci di servizio non si accendono, e non parte nessuna musica di fondo come accade in queste occasioni. L’elettricità degli spettatori risale in applausi e ovazioni colossali.
Si accendono i fari sui due lati della gigantesca bocca-palco e appaiono 40 donne vestite di nero che intonano “You can’t always get what you want” e sono davvero brividi e lacrime.
La band è di nuovo lì sul palco per questo meraviglioso pezzo di cui oltre la bellezza pochi intuirono la portata. Scritto dopo i tragici eventi del concerto di Altamont in cui uno spettatore venne accoltellato dal servizio d’ordine degli Hell’s Angels e dopo l’uccisione della moglie di Roman Polansky, Sharon Tate, massacrata dalla setta di Charles Manson, è stata la canzone capace di suggellare un’intera epoca, la fine dei sogni, la chiusura definitiva degli anni sessanta.
Il ’68 era alle porte, ma gli Stones avevano già ben chiaro che “l’immaginazione non avrebbe preso il potere”.
Perché la rivolta che correva nelle strade si aggrappava a fili troppo sottili come le voci di questo coro. Mick canta “non puoi sempre avere tutto quello che vuoi, ma se provi qualche volta, allora puoi scoprire che hai già quello di cui hai bisogno.
Questa canzone è stata la sigla di un decennio che aveva promesso meraviglie, le aveva anche indiscutibilmente prodotte, ma loro sapevano che si era alla fine di un’adolescenza prolungata per un’intera generazione.
La loro grandezza, forse, è stata essere, involontariamente, una tra le band “più politiche” della storia, senza mai aver fatto azioni o dichiarazioni in merito.
Il pubblico è in lacrime ma non c’è spazio. Keith avanza sul proscenio imbracciando la chitarra come un’arma per sparare il riff più conosciuto, quello di un interminabile “Jumpin Jack flash” capace di trasformare l’aria in fuoco e l’intera 02 Arena in una bolgia infernale.
Sono passati 50 anni, e molti dicono che il rock sia morto, ma non c’è alcun dubbio, vivi restano questi Rolling Stones.

Renzo Sicco

3 Responses to : Rolling Stones 2012!

  1. mario ottolenghi says:

    RENZO MI SONO COMMOSSO!UN RACCONTO STREPITOSO E MOLTO DETTAGLIATO!!MENTRE LO LEGGEVO MI SEMBRAVA DI VEDERLO!!.E NELLO STESSO TEMPO TI HO INVIDIATO DA MORIRE!!COMUNQUE ERA IL TUO COMPLEANNO!CREDO CHE UN REGALO COSI UNICO NON L’AVRESTI RICEVUTO DA NESSUNO!BRAVO RENZO!!UN ENORME ABBRACCIO!!MARIO OTTOLENGHI!!

  2. Adelina says:

    Grazie Sicco, per me e per chi non c’era!!!

  3. luca Occelli says:

    (……….)- senza parole –

Lascia una risposta

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

*

You may use these HTML tags and attributes: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <s> <strike> <strong>