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È morto Luis – IL NOSTRO RICORDO

16 aprile, 2020 - 12:27

Questa mattina, 16 aprile, è mancato Luis Sepúlveda, grande scrittore cileno, amico e collaboratore di Assemblea Teatro. Dopo oltre un mese di ricovero in ospedale, il grande lottatore non ce l’ha fatta

 

SEPULVEDA D-rolling

 

Luis non c’è più.

Molti mi chiedono di scrivere, ma non ci riesco: mi si riempiono gli occhi di lacrime e sopraggiunge il silenzio.

Lo farò ma datemi il tempo di creare lutto e distanza; intanto vi offro parole scritte anni fa: nel 2008 da Luca Indemini, in occasione della presenza a Torino di Sepúlveda per un appuntamento da noi organizzato alla Fondazione Mertz. E poi quelle di Laura Nosenzo, una scrittrice astigiana con cui stiamo avviando una collaborazione. Quindi una poesia della vedova, Carmen Yáñez, e i ricordi di chi, in Assemblea Teatro, ha lavorato con lui.

Renzo Sicco

 

 

sepulveda con sigaro-1

 

Sabato 29 marzo, in occasione della mostra «Lo Spazio dell’Uomo – Collezione Museo de la Solidaridad Salvador Allende», Le rose di Atacama sono fiorite per una sera, grazie ad Assemblea Teatro, negli spazi della Fondazione Merz. Tra il pubblico numeroso e attento, c’erano anche Luis Sepúlveda, autore del romanzo adattato per il teatro da Renzo Sicco, e sua moglie, la poetessa cilena, Carmen Yàñez Hidalgo. Quando l’applauso catartico della sala sottolinea la fine dello spettacolo, un Sepúlveda visibilmente commosso si avvicina agli attori e li stringe uno a uno, in un lungo abbraccio carico di gratitudine.

Che effetto suscita vedere riproposto sul palcoscenico un proprio romanzo?

«È una bella sensazione. Assemblea Teatro ha portato in scena molti miei testi e ogni volta Renzo Sicco riesce a regalarmi un trattamento rigoroso, rispettoso. Sento che quando la parola scritta entra nel teatro si recupera, si ossigena, respira nuovamente, con una nuova giovinezza. Anche io sono uomo di teatro, sono direttore di teatro, ho scritto tanto per il teatro e so che quando si lavora bene, con amore, il risultato finale è convincente, bello e poetico».

Questa serata può essere inserita tra i numerosi, piacevoli tasselli che la legano alla città di Torino?

«Sì. Ho un rapporto di grande amicizia con Torino, ci sono tanti amici qui: uno è Renzo Sicco e la gente di Assemblea Teatro, poi ci sono quelli del Premio Grinzane Cavour. Torino è un posto dove mi sento benissimo, so di essere il benvenuto. Devo momenti bellissimi della mia vita come scrittore e come persona a Torino».

Qual è l’aspetto che la colpisce di più della città?

«Io cerco sempre di guardare indietro, nella storia. Questo dinamismo che si trova oggi in città, non è tipicamente torinese, credo sia frutto dell’immigrazione dal Sud negli anni dell’industria, quando gli operai arrivavano dalla Sicilia, dalla Puglia, tra mille difficoltà, quasi senza parlare l’italiano. Oggi Torino è bella, dinamica, proprio grazie all’apporto degli immigrati. L’immigrazione ha bisogno di tempo per solidificarsi nel suo apporto culturale, l’apporto di questa immigrazione è la Torino di oggi».

Torino è una delle tante città che l’hanno accolta a braccia aperte, come ci si sente a non avere una casa fissa?

«Io ho sempre avuto una casa fissa, solo che nel tempo è cambiata. Il primo tempo dell’esilio era un periodo convulso, poi quando sono arrivato in Europa, la mia casa è diventata Amburgo. Era quello il mio posto nel mondo, il posto dove lavoravo, dove svolgevo attività professionale e sociale, poi è diventata Parigi, adesso la Spagna in Asturia. Abito da 11 anni a Gijon, è un posto fisso, mi trovo bene. Certo, non sono un patriota, sono un cosmopolita nel senso buono del termine. Come diceva mio nonno paterno: uno è di dove si sente bene, e io adesso mi sento benissimo a Torino per esempio, e anche a Gijon. La vita è così».

In tempi in cui si fa un gran parlare di globalizzazione, ha sentito la necessità di sottolineare “cosmopolita in senso buono”. Cosa vuol dire per lei?

«Nel senso dell’Internazionalismo. È importante capire che la nostra vera appartenenza è quella alla famiglia umana. Oggi abbiamo questa grande opportunità di confrontarci con l’altro, col diverso e da questo confronto si arriva a qualcosa di affascinante: la differenza è bella, ma si scopre che ci sono più cose che avvicinano, di quelle che separano e allontanano».

Questo essere cosmopolita l’ha portata a viaggiare molto, in Patagonia Express però si parla anche di un viaggio non fatto, quello in Patagonia con Bruce Chatwin.

«Con Bruce ci siamo conosciuti, non eravamo amici intimi, eravamo troppo diversi. Io ero un grande ammiratore della sua letteratura, non della sua concezione del viaggio. Era troppo inglese, viaggiava in modo diverso: partiva da un’ipotesi e viaggiava per trovare delle conferme. In Patagonia è un libro bellissimo, ma è partito con delle ipotesi e durante il viaggio si è perso qualcosa, non ha visto un aspetto importante della Patagonia: tutta quella gente che vive e lavora e cerca di sopravvivere in questa regione terribile del mondo. Eravamo entrambi appassionati di Butch Cassidy e Sundance Kid, volevamo seguire le loro tracce in Patagonia per scrivere un libro su di loro a quattro mani. Ma lui è morto poco dopo il nostro primo incontro».

Patagonia Express è stata una delle occasioni che l’hanno riportata in Cile: quando è tornato l’ultima volta che Paese ha trovato, che cambiamenti ha notato?

«È difficile parlare del Cile in generale. Nel profondo Sud, in Patagonia o nella Terra del Fuoco la gente è sempre la stessa, la natura è così forte che mantiene invariata la forma di aggregazione umana, lo stesso avviene al Nord, nel deserto, la vita è la stessa di trenta anni fa. Le cose cambiano nel centro, a Santiago, qui si trova un Paese di trionfatori, con una forte apartheid non tanto razziale quanto economica. Parliamo di un Paese che ha rinunciato all’istruzione e alla sanità pubblica, che ha perso la sfida industriale ed è tornato alla condizione di “raccoglitori”, oggi il Cile esporta solamente frutta, non si fa nulla in campo tecnologico, da troppo tempo».

A proposito di tecnologia, qual è il suo rapporto con internet?

«Buono, credo valga lo stesso discorso della televisione, non è male di per sé, il problema è chi la fa e come. Internet permette una comunicazione più orizzontale, da questo punto di vista è una forma di comunicazione potenzialmente democratica. Ma da un altro punto di vista è generatore di una realtà parallela: c’è gente che passa troppo tempo dentro la rete. O che dire dell’internet commerciale, paradiso della pornografia? Però credo che sia una buona possibilità».

Luca Indemini

 

 

LAURA NOSENZO-Sepulveda

 

Conservo una foto di Giulio Morra in cui rido con Luis Sepúlveda, una mezz’ora dopo averlo conosciuto e qualche minuto prima di iniziare a moderare la conversazione a cui partecipa anche Carlo Lucarelli.

È il 24 settembre 2003, siamo a Castello d’Annone, in una tappa di “Chiaroscuro”.

Dobbiamo concordare come condurre l’incontro. Sepúlveda dice con ironia: «Chiedimi cosa vuoi, risponderò a tutte le domande. Sulla mia vita sono piuttosto preparato».

Quando già siamo davanti al pubblico, mi rende sua complice sussurrando: «Siamo seri, ma divertiamoci anche un po’».

Poi racconta larghi tratti della sua vita come un romanzo, soffermandosi su ciò che le persone vogliono maggiormente ascoltare: il suo impegno di ambientalista, gli anni bui della dittatura cilena e il suo vivere da rifugiato politico in Europa. C’è in lui una malinconia di sottofondo, ma anche un’ironia schietta che salva dalla retorica. Nel libro Il generale e il giudice, che oggi sfoglio con tristezza, resta la sua dedica: «Alla mia amica Laura con gratitudine e dolcezza». A ben vedere quel «siamo seri, ma divertiamoci anche un po’» è come, in fondo, Luis ha sempre vissuto e come tanti di noi ambirebbero a fare.

Laura Nosenzo

 

 

SEPULVEDA ROLLING

Tratto da Elcomercio.es

Éramos tan felices y no lo sabíamos

di Carmen Yáñez

 

 

 

Alcuni pensieri di chi, in Assemblea Teatro, ha lavorato con Luis

 

 

SEPULVEDA-Gisella Bein

 

Sì, è stato un privilegio poterlo incontrare in molte occasioni. Abbracciarlo forte. Avere l’opportunità di imparare tanto, perché, come succede con tutti i maestri, era sufficiente osservare. Lavorare per Carmen, grande poetessa anche lei, che raccontava, sorridendo. A Lola e a me, che dopo il matrimonio giovanile, un figlio, il carcere e l’esilio e il ritrovamento, si sarebbero risposati. Ma anche vederlo giocare e scherzare come un bambino, insieme ai suoi amici. Mario Delgado o Paco Ignacio Taibo II quando organizzavano il Salone del Libro di Gijón. Che somigliava più a una festa, che a un raduno dei maggiori latinoamericani. Pensare che sarebbe venuto a vedere Mocha Dick, l’ultimo lavoro, in cui ci legge l’incipit in video e sperare che gli sarebbe piaciuto e che saremmo andati a cena. E avremmo riso molto e bevuto vino. Rosso. Ricordi tanti. Oggi brucianti. Ma ne è valsa la pena.

Buon rientro in Patagonia, Lucho

Gisella Bein

 

 

SEPULVEDA 1

 

A Lucho

Caminante, son tus huellas

el camino, y nada más;

caminante, no hay camino:

se hace camino al andar.

Al andar se hace camino,

y al volver la vista atrás

se ve la senda que nunca

se ha de volver a pisar.

Caminante, no hay camino,

sino estelas en la mar.

Così Antonio Machado descrive il nostro viaggio nella vita. Il nostro cammino passato sono solo “huellas”, orme, impronte, lasciate sulla sabbia e che mai torneremo a ripercorrere. Ma le impronte che Lucho ha impresso, imprime e imprimerà sulla nostra strada, rappresentano il nostro passato, presente e futuro di esseri umani sensibili, militanti e solidali. Le orme di Lucho ci indicano la via e rendono più chiaro e luminoso il cammino.

Parafrasando alcune delle necessarie parole che ci ha regalato:

“Luis Sepúlveda ci insegna a trarre la bellezza e la poesia da luoghi, persone e cose apparentemente semplici. Le parole e le suggestioni di Sepúlveda rimarranno sempre e ci accompagneranno, amabili sentinelle delle notti più buie, fuoco nei giorni senza luce e senza diritti. E forza, forza per la stanchezza dei sognatori”. Hasta siempre, compa.

Un abbraccio

Mattia Mariani

 

 

 sepulveda 8

 

Se n’è andato… un Uomo, un militante, un rivoluzionario, uno scrittore, un poeta, un hermano del mondo. In 70 anni non l’aveva ucciso il carcere, le torture, non l’aveva ucciso l’esilio dal suo Cile, non l’aveva ucciso la guerriglia armata in Nicaragua e neanche la delusione cocente del mancato processo a Pinochet… ha resistito e vissuto una vita piena, con forza e lottando sempre contro tutte le ingiustizie perpetrate verso gli uomini e la natura in ogni parte del mondo.

Questa ultima battaglia non è riuscito a vincerla… stento a crederlo… il vuoto che questo grande viejo ha lasciato è immenso…

Io sto cercando di colmarlo con i ricordi.

Come quella volta che venne, insieme a Carmen, a vedere Le rose di Atacama alla Fondazione Merz… Sì, perché io ho avuto, ed ho, il privilegio di interpretare da anni questo spettacolo, godendo ogni volta di dare voce alle meravigliose parole di Sepúlveda.

Ricordo l’emozione di incontrarlo per la prima volta, la paura di trovarmi a raccontare la vita di Sepúlveda… davanti a Sepúlveda!

Ricordo il suo volto serio, fermo, attento; lo ricordo in piedi, svettare sopra le teste degli altri spettatori, mentre teneva stretta a sé Carmen, come a volerla proteggere dalla sua stessa storia, raccontata da noi sul palco… e ricordo ancora, a fine spettacolo, come quell’espressione dura sul suo volto si sciolse, in un attimo, in un sorriso aperto e un abbraccio poderoso che riservò ad ognuno di noi come ci conoscessimo da sempre.

Oppure un’altra volta che mi ritrovai sola davanti a lui, su un terrazzo a fumare un immancabile sigaretta dopo la cena… e non riuscivo a spiccicare parola. Nella mia testa c’erano tante e tante cose che avrei voluto dirgli, tante domande che avrei voluto fargli, ma l’emozione e la timidezza vinsero e il silenzio fra noi durò fino a quando Luis spense la sua sigaretta e rientrando disse un cortese «Con permesso…», o qualcosa del genere.

Volevo sotterrarmi! Che vergogna! Più tardi, in mezzo a tutti gli altri, cantando e bevendo, Luis mi riservò uno sguardo sorridente…!

Ma soprattutto colmerò il vuoto della sua presenza nel mondo con le sue parole, i suoi racconti, i piccoli e grandi eroi che ci ha fatto conoscere e attraverso i quali possiamo immaginare un mondo più “umano”.

Alzo il bicchiere e brindo. Salute Luis. Laico, socialista e bevitore di vino rosso. Salute a te!

Silvia Nati

 

 

sepulveda 9

 

Quando avevo 12 anni rimasi senza parole quando vidi le immagini di quel che accadeva in Cile. Una volta ogni nuovo conflitto era una ferita enorme che si apriva nel cuore, oggi che siamo circondati dalle guerre quasi non abbiamo più reazioni. Poi a ricordarmi il Cile furono i concerti degli Inti Illimani, le canzoni di Victor Jara e infine, anni dopo, i racconti di Luis Sepúlveda. Ogni suo incontro era un’emozione enorme. Penso a quando rifaremo il primo spettacolo tratto dai suoi libri, sarà durissima ma te lo dobbiamo.

Un saluto amico

Paolo Sicco

 

 

Sepunveda 16 con Carmen

 

Appena ho saputo della morte di Luis, ho pensato a Carmen. Ho pensato alle volte in cui li ho visti insieme. Lui grande, sornione, imponente (in tutti i sensi); lei piccola, attenta, delicata. Vicini. Attaccati. Fosse una cena dopo uno spettacolo, una mostra, una colazione in un albergo in giro per il mondo. Se li incontravi da soli sembravano zoppi. Autonomi, forti e un po’ zoppi.

Ho pensato a come Carmen lo guardava mentre lui incantava il pubblico che era lì per farsi incantare. A come Luis la guardava mentre lei leggeva una delle poesie (bellissime) che Carmen scriveva “in pieno disordine”. Ho pensato a questi 50 giorni. Spero che Luis non abbia troppo patito.

Son certa che Carmen sì, abbia patito. E sperato. E maledetto e forse anche un po’ addirittura pregato. E ora? È stato tutto troppo veloce e troppo lungo, lento, interminabile e inesorabile. Non ha un bel finale questa storia.

Ogni volta che ci siamo incontrate, Carmen mi ha sempre chiamata per nome. Vorrei poterle dare un abbraccio forte e sincero come lei ha sempre fatto con me e dirle che si sentirà zoppa e sicuramente un po’ lo sarà.

Ma che quel che è stato C’È STATO. E quel che c’è stato sarà.

Hasta pronto

Annapaola Bardeloni

 

 

Sepulveda 17 e Sandra Binati

 

Grazie a Renzo e ad Assemblea Teatro, ad inizio anni 2000 ho avuto l’onore e il privilegio di incontrare e conoscere Luis Sepúlveda, una sera al Teatro Agnelli, in occasione dello spettacolo Le rose di Atacama. Avevo letto il libro e ribattuto il copione della riduzione teatrale di Renzo. Ma avevo letto anche chi era Luis e chi erano le protagoniste del testo. Mi ha stupita la semplicità, la gentilezza e l’ironia di un uomo che ha vissuto gli anni bui e terribili della dittatura e l’esilio, e che attraverso gli altri suoi testi ha saputo accompagnarci a vedere altri mondi con occhi diversi donandoci punti di vista e insegnamenti.

Ci ha insegnato “ad osare e a volare”

Sandra Binati

 

 

 

Sepulveda 20

 

Me pide Renzo escribir un recuerdo sobre Luis. Luis Sepúlveda. Lucho. Me lo pide porque Luis murió ayer, 16 de abril del 2020, en Asturias. Me lo pide porque Luis es su amigo. Su gran amigo. Me lo pide y ojalá no me lo hubiera tenido que pedir. Aún no me lo creo.

Confiaba en que saliera adelante y que pudiéramos ir todos a Gijón a celebrarlo. Pero, maldita sea, no. Y entonces, como tampoco podemos irle a despedir, ni dejarle flores, ni abrazar a Carmen, su esposa, nuestra amiga, su amor, pues se lo tenemos que escribir. Para que Carmen sepa cuánto les queremos a los dos. Cuánto su recuerdo llena nuestras vidas. Y la embellece.

Por eso desde ayer, todos sus amigos, nos consolamos, nos damos cariño en la distancia recordándolo con una copa de vino, rosso. Brindando por él. Por ellos. Ya le echamos de menos a este hombre extraordinario.

Qué fuerza de la naturaleza, qué vida tan bien vivida, tan abrazada, cuántos viajes, cuánto compromiso, cuánta generosidad, cuántos amigos, cuántas novelas, cuánta sensibilidad, cuánto coraje. Cuánta belleza. Conocer a Luis y formar parte de Las rosas de Atacama ha sido una de las experiencias más hermosas de mi vida.

Nunca podré agradecer a Renzo lo suficiente. Las flores florecieron en la Mina de Prali, bajo tierra, en medio del silencio absoluto, cada día. Incluso el día del atentado de las Torres gemelas, cuando vino Marzia, la rubia, a vernos. La morena, Carmen lo haría también. Con Luis.

Recuerdo nuestra emoción, y la de ellos. Eran ellos los que vivieron el golpe de Pinochet, era Luis el amigo personal de Allende. Era Carmen la que estaba prisionera en Villa Grimaldi. Pero también eran ellos los que se volvieron a encontrar y se prometieron amor eterno.

La mina lloraba con Panchito Barría y cantaba con Violeta y Víctor Jara, y reía con el Tano y brindaba por el profesor Gálvez con vino, rosso. Me siento agradecida por su amistad, por los buenos ratos en Turín, en Madrid y en Gijón.

Que cada instante recordado es un tesoro. Que recuerdo especialmente sus silencios. Y de golpe, su risa. Que me encantaba que me llamara «Compañera Delegada». Y que desde aquí le deseo buen viaje a Luis y muchas gracias por tanto. Y a Carmen, toda la fuerza del mundo. Que su amor y su ejemplo seguirán con nosotros. Y toda su obra. Y toda su Poesía.

“Y de pronto, todo el desierto se transforma en un infinito jardín de flores, rojas. Las rosas de Atacama”. Estas rosas, tan preciosas, tan únicas, son y serán por siempre, para ti, amado Lucho.

Por siempre, para ti

Lola Gonzales Manzano

 

 

 

sepulveda 22

 

Non so quanti abbiano avuto il privilegio di poter rivestire, in scena, i panni di un grande autore. Pronunciarne le parole, restituirne il pensiero e il senso di un’esperienza di vita fuori dall’ordinario. Per di più mentre proprio quello scrittore è lì, a guardarti e ad ascoltarti, coraggiosamente confuso tra il pubblico.

Sì, sono sicuro che gli occorresse una buona dose di coraggio per rievocare ancora una volta le torture subite, gli affetti strappati, la libertà negata.

A me è capitato più volte di recitare Sepúlveda davanti a Sepúlveda. E non potrò mai dimenticare il suo sguardo. In alcuni momenti sembrava che mi scrutasse l’anima, in un sottile gioco di specchi grazie al quale sembrava che interrogasse, attraverso la mia presenza sul palco, la sua stessa anima.

Ma soprattutto non potrò mai dimenticare il forte abbraccio con il quale mi avvolgeva durante il rito degli applausi finali.

Luis, i colleghi, il regista e io a ringraziare il pubblico.

Il pubblico, i colleghi, il regista e io a ringraziare Luis.

Ecco, il mio ricordo forse è tutto in quegli abbracci.

E in quel reciproco “grazie”

Oliviero Corbetta

 

 

Sepulveda 23

 

Nel tuo libro Il potere dei sogni scrivi:

“Sogno, non m’importa se una certa visione del lucro come unico traguardo dell’uomo stigmatizza i sogni e i sognatori. Mi considero un sognatore, ho pagato un prezzo abbastanza alto per i miei sogni, ma sono così belli, così pieni e intensi, che ogni volta tornerei da capo a pagarlo. Credo che non ci sia sogno più bello di un mondo dove il pilastro fondamentale dell’esistenza è la fratellanza, dove i rapporti umani sono basati sulla solidarietà, un mondo in cui siamo tutti d’accordo sulla necessità della giustizia sociale e ci comportiamo di conseguenza. I miei sogni sono irrinunciabili, sono ostinati, testardi, resistenti, e si antepongono all’orrore dell’incubo dittatoriale”.

Il tuo sguardo, il tuo sorriso, il tuo abbraccio, la tua vita sono stati testimonianza viva delle tue parole.

Che insegnamento prezioso…

Grazie Luis!

Roberta Fornier

 

 

SEPULVEDA NEW rolling

 

Arrivederci, Luis.

Posso darti del tu?

D’accordo… d’accordo… allora:

di te ho avuto l’onore di conoscere il sorriso e la stretta di mano.

E non è poco.

Il sorriso pieno, aperto, sincero, scandalosamente gioioso, come solo sono i sorrisi che han messo radici in un pianto così lontano da non poterlo più dimenticare.

La stretta di mano, mi è sembrato che sapesse di terra a cui si attacca la vite, quercia e spuma d’onda, dono che sorprende, vita trasmessa per contatto, contagiosa assai più del frammento di natura che si è insinuato nel tuo corpo e che quel corpo ha spento.

Ora quel sorriso e quella stretta di mano non saranno più. Mai più.

La generosità, il coraggio, l’umiltà, la leggerezza, l’ironia, la lucidità, l’asprezza, la dolcezza, l’umanità, la sensualità, la bellezza e la “responsabilità solidale” delle tue parole, invece restano.

Restano.

Restano.

Restano accanto a noi, a ricordarci in questi giorni di Babele del cuore, quale sia in fondo l’unica nostra ragione di esistere. Cantare il mondo. Raccontarlo con le parole, dono che un qualche dio ha voluto farci e che dovremmo (ri)meritarci ogni giorno. Altro non c’è. Ma questo è tutto. E le tue parole Luis stanno nel nostro cuore (per il sempre che sarà ancora concesso a ciascuno di noi) come archetipo di una esistenza vissuta davvero. Perché hai saputo raccontarci, senza averci mai nemmeno incontrati.

E quando ho avuto l’onore di recitare le parole con le quali descrivevi i versi del poeta Pablo Neruda, mai avrei immaginato che un giorno, quelle stesse parole, sarebbero apparse ai miei occhi come un lampo nel buio della tristezza per descrivere la tua stessa poesia.

“Así nos acompañarán siempre tus versos, amables centinelas de las noches más sombrías, fuego de los días sin luz y sin derechos, fuerza para el cansancio de los soñadores”.

Arrivederci, Luis, ad ogni voltar di una tua pagina.

E grazie

Marco Pejrolo

 

 

Dedica di Sepulveda a Cris

 

«Cris, sei disposta a imparare La gabbianella e il gatto in spagnolo o dobbiamo cercare qualcun altro?». Questo è il solito modo di Renzo Sicco di mettermi di fronte a una non-alternativa. Fossi scema! La Gabbianella il Gatto è mia e solo mia, guai a chi me la tocca!

«Certo, Renzo. Ora andiamo a farla in spagnolo, in Sud America?».

«No, a casa di Sepúlveda!».

«Ma stai scherzando?».

«No, a casa di Sepúlveda andiamo solo a mangiare, per il resto ci ha invitati alla Feira del Livro de Gijón a fare lo spettacolo in teatro».

(Io ho fatto il linguistico, e ho studiato inglese francese tedesco. Lo spagnolo non lo so. Ma cosa me ne frega!). «Ma certo che lo imparo!».

LA GAVIOTA Y EL GATO nella sua lingua originale, così come l’ha pensata LUI, Luis Sepúlveda!

Pur di andare a casa di Luis e Carmen (le cui poesie mi fanno impazzire) e poter passare cinque giorni insieme a lui e a lei… Io imparo anche il sanscrito!

Tralascio la bellezza di Luis e di Carmen; il dolore per la perdita di Sepúlveda è ancora così forte da non riuscire a parlarne.

Una parte di me vuole tenersi gelosamente tutto ciò che ci siamo detti e che abbiamo vissuto e il sapore del suo abbraccio intenso, silenzioso e interminabile a fine spettacolo.

Ma due cose le vorrei condividere perché mi piace parlare degli amici che non ci sono più ricordando gli aneddoti più divertenti.

Primo aneddoto: debutto con La Gaviota y el Gato nel teatro di Gijón. 6 febbraio 2007.

Con me in scena, Andrea Castellini e Licio Esposito.

Teatro sold out e, nelle ultime due file della platea, tutti i più grandi nomi della letteratura ispanica seduti accanto al loro amico Luis.

Verso la fine dello spettacolo, rapita dalla bellezza delle parole nella loro lingua madre, calco un po’ più del solito la mano sull’emozione del distacco tra la gabbia e il gatto. Dal palco vedo in sala Luis alzarsi e uscire, un secondo dopo è seguito da Carmen e, pochi minuti dopo, da un gremito gruppo di scrittori suoi amici. Tra me e me penso: “Ho fatto schifo”. Faccio l’inchino, con i miei due colleghi saluto il pubblico, e mi rintano in camerino. Scoppio in un mare di lacrime convinta di aver fatto un’interpretazione terribile. Andrea e Licio, preoccupati e interdetti, non sanno come consolarmi.

Dopo 20 minuti di disperazione in camerino giunge Renzo Sicco che mi dice: «Sei contenta? Hai fatto piangere Luis come un bambino a tal punto che tutti sono dovuti uscire a consolarlo, prima sua moglie, poi i suoi migliori amici».

Come dire… ho asciugato le lacrime!

Mi sono cambiata in fretta, sono uscita nel foyer e… lì c’è stato l’indimenticabile lunghissimo abbraccio con Luis.

Secondo aneddoto: cena a casa sua. Ultimo giorno del festival.

Non abbiamo una foto di quella serata perché certe cose vanno solo impresse nel cuore e non nella memoria di un telefono.

Ricordo “il gigante buono”, sempre con il suo sigaro in bocca, in piedi dietro la parrilla continuamente a sfornare tutte le prelibatezze che la carne alla brace consente ai sudamericani DOC, e a porgerle personalmente a tutti i suoi invitati. E giù a bere vino.

Mai un invitato lasciato in disparte. Neppure noi.

Adios, Luis. Addio, Luis. Mi mancherai. Ma tutte le volte che farò La Gabbianella e il Gatto… tu sarai con me.

Tu, uomo, che hai dato luce all’ombra.

Tu, scrittore, che ci hai portati in viaggio tenendo il nostro cuore per mano.

Tu, cileno errante, combattente dei poveri e dei perseguitati.

Tu, amico a prima vista di tutti noi di Assemblea Teatro

Cristiana Voglino

 

 

 

Sepulveda 24

 

La prima volta che incontrai Luis fu attraverso le pagine di un suo libro Patagonia Express.

Fu la scoperta di un nuovo mondo, per me cresciuto in un depresso paese dell’hinterland torinese, dove le giornate trascorrevano tutte con una certa regolarità e senza particolari esperienze interessanti. Mi sono sempre chiesto se gli appunti di viaggio narrati in quel libro fossero realmente accaduti o frutto di un enorme fantasia dell’autore.

Qualche anno dopo ebbi la fortuna di prendere un aereo con gli amici di Assemblea Teatro e fare il mio Patagonia Express e le pagine lette si trasformarono in realtà.

Il paesaggio, gli odori, le strade interminabili, i volti, quelle voci “stanche”, le mille contraddizioni e soprattutto le storie.

Ho imparato che in Sud America le cose ordinarie non esistono e se sei in possesso di un minimo di curiosità e la giusta sensibilità le storie ti vengono a cercare, a te basta aprire occhi, orecchie e viverle.

Fu amore. Il primo rito di iniziazione di quella che sarebbe stata per lungo tempo la mia vita.

Credo che fosse il 2007 quando con Assemblea fummo invitati a partecipare con la nostra versione della Gabbianella al festival organizzato da Luis a Gijón nelle Asturie.

Per trasportare tutte le scenografie io e il buon Paolino avevamo fatto il viaggio da Torino su un furgone. 1470 km.

Una sorta di “Europe Express”.

18 ore di viaggio. Ero stremato.

Mi ripresi subito quando seppi che quella sera Luis ci aveva invitato a casa sua per un asado.

Prendiamo un taxi, entriamo e ci sistemiamo in giardino nella grande tavolata che ospitava gli altri ospiti del festival.

Un vero asado sud americano in riva all’oceano spagnolo. Mi ritorna alla mente quella volta che mangiai una reineta a la plancha di fronte alla Baia di Quintay in Cile, il suo Cile.

Il tempo che questo pensiero abbandoni la mia testa ed eccolo qui, Luis, di fronte a noi, con il suo immancabile sigaro.

Inizia a parlare.

La sua voce?

“Stanca”, trascinata, come se dovesse compiere un enorme sforzo per parlare; nascondeva la durezza di quello che ha passato durante la sua vita, ma lasciava trasparire forza e determinazione, quella descritta magistralmente nel volo della gabbianella e, tempo dopo, in quello del gatto cieco che grazie all’amico topo prende il volo sui tetti, insegnandoci che la lotta e l’amicizia possono rompere barriere di qualsiasi tipo.

E amore.

Amore per la vita, la poesia e la sua Carmen.

Ed è questa la mia personale foto di Luis.

Il sorriso e l’amore che aveva quando stava accanto a lei e la sua voce “stanca”, figlia di un Sud America maltrattato, ma mai vinto.

Per questo, grazie Compagno Luis.

Presente, ahora y siempre

Andrea Castellini

 

 

sepulveda 25

 

Ho conosciuto Luis Sepúlveda che avevo 22 o 23 anni. L’ho conosciuto attraverso i libri. Prima il Diario di un killer sentimentale e, in seguito, senza pausa tra loro, Patagonia Express e Il vecchio che leggeva romanzi d’amore. È così diventato mio amico, come alcuni altri scrittori, ma non molti. Io ero giovane, e lui, dopo il poeta Mário de Sá-Carneiro, è stato il secondo scrittore ad essermi amico, toccando veramente la mia sensibilità, i miei pensieri.

La mia ammirazione per lui è rimasta. Non solo come scrittore ma anche come ambientalista. Tre o quattro anni fa, grazie a Renzo, ho potuto editare in Portogallo lo straordinario lavoro scritto a quattro mani (con Renzo Sicco) Il funerale di Neruda.

In settembre, e poi nel gennaio scorso, abbiamo presentato, in una co-produzione di Seiva Trupe e Assemblea Teatro, lo spettacolo a Porto e ho avuto l’onore di partecipare, come attore, a questa regia di Renzo Sicco.

Finalmente, in febbraio, ho conosciuto personalmente Luis Sepúlveda in un festival letterario vicino a Porto, qualche giorno prima che lui andasse in ospedale. Mi ha parlato come se mi conoscesse, congratulandosi per il mio lavoro. Sono stato sorpreso. Ho capito che mi conosceva attraverso Renzo, di cui mi ha anche diffusamente parlato.

Non avrei mai pensato che il Covid-19 lo avrebbe preso per sempre. Sono triste, molto triste.

Penso alla sua famiglia e ai suoi amici.

Penso a Renzo

Rui Spranger

 

 

luis-erri

 

Fu proprio Assemblea Teatro ad organizzare nel 2004, nell’ambito del progetto Urban di Mirafiori, con l’allora presidente Juri Bossuto e i coordinatori Gianfranco Presutti e Riccardo Bergamin, l’incontro tra i due scrittori, Sepúlveda e De Luca, che risposero entrambi positivamente all’invito di Renzo Sicco a trovarsi e conoscersi. Per chi c’era, è stata una serata memorabile.

La dittatura cilena sparse ai quattro venti i suoi cittadini che avevano costruito il governo democratico del socialista Allende. Luis Sepúlveda e la sua compagna hanno portato nella loro vita in giro per il mondo le ferite di quel tempo di tirannia, omicidi, torture, fughe. Non diventarono cicatrici, rimasero ferite senza punti di sutura.

Oltre che scrittore da leggere al volo, Luis Sepúlveda è stato compagno di idee condivise e di fraternità. Mi sostenne durante il processo che affrontai a Torino per il sostegno dato alla lotta della Val di Susa. Ci siamo incontrati in varie occasioni letterarie, l’ultima al Salone di Torino un anno fa.

Ancora sento tra le mie braccia il suo lungo abbraccio.

Erri De Luca

Testo tratto da Huffingtonpost.it

 

 

sepulveda 27

 

Luis Sepúlveda lo raggiunsi nel 1997 con una cartolina dal Cile, più precisamente dalla Patagonia. Mi ero spinto fino a Puerto Natales, nella provincia di Última Esperanza, perché in una intervista avevo letto che Luis diceva che alla locanda Los Pioneros si mangiava la migliore zuppa di frutti di mare del mondo. La ordinai e, dopo averla ben gustata, su di una cartolina scrissi: “compañero es verdad, valia la pena llegar hasta el final del mundo para comer la mejor sopa de mariscos – compagno è vero, valeva la pena arrivare fino alla fine del mondo per mangiare la migliore zuppa di frutti di mare”.

Mi rispose: “Hermano, quando verrò in Italia, in qualunque posto tu possa raggiungermi sarai per me un fratello”. Lo raggiunsi e, quando gli dissi che ero quello della sopa de mariscos, mi strinse in un abbraccio interminabile a cui sono rimasto aggrappato. Nel tempo sono così rimasto el hermano de Torino.

L’ultimo messaggio me lo ha scritto, via sms, il 17 febbraio scorso. Rispondeva alle informazioni positive che gli avevo dato sul controllo del mio PSA dopo l’operazione di cancro. Mi diceva “bravo hermano es una noticia che nos alegra mucho – bravo fratello è una notizia che ci (me e Carmen) rallegra molto”. Non ho potuto rendere la stessa cosa.

In mezzo scorrono 23 anni di amicizia, in cui abbiamo messo in scena 5 suoi romanzi (Le rose di Atacama, La gabbianella e il gatto che le insegnò a volare, La storia del gatto e del topo che diventò suo amico, Ritratto di gruppo con assenza e il recente Storia di una balena bianca raccontata da lei stessa). Ed in tutto questo tanti incontri da lui, da noi, in Cile ma soprattutto la scrittura di El funeral de Neruda, impegnativo lavoro sulla ricostruzione degli ultimi 15 giorni di vita del poeta cileno che mai nessuno aveva raccontato, giacché era impossibile restituire quei giorni schiacciati dal terrore e dalla violenza dell’esercito. Su quel progetto si era buttato con convinzione e la sua sete di verità rimase sorpresa e meravigliata quando andai a raccontargli l’incontro avuto con Manuel Araya, l’autista di Neruda.

Quello spettacolo in cui avevamo creduto insieme scoperchiava un altro dei “tanti silenzi del Cile”. Non cambiava il corso della storia perché, come diceva Luis, «Neruda era morto di golpe in ogni caso», ma gettava nuove palate di fango su Pinochet e i militari cileni. E riscattava ancora una volta la verità degli umili e degli sconfitti. Era la sua filosofia.

C’è un romanzo breve di uno scrittore uruguayano, Carlos Domínguez, intitolato La casa di carta, che racconta di una casa costruita solo con libri al posto dei mattoni. Questa è stata l’impressione che ho vissuto alcune notti nella casa di Sepúlveda, a Gijon nelle Asturias. Luis, o meglio Lucho, come lo chiamavano gli amici, mi ha ospitato in una bella stanza con due luminose finestre sul suo giardino in cui tutte le pareti erano zeppe e ricoperte di libri. Le edizioni in diverse lingue della Gabbianella o del Vecchio che leggeva romanzi d’amore, e di tutti gli altri pubblicati nelle lingue del mondo. In quella stanza respiravo e sentivo battere il cuore del mio amico Lucho. Quel cuore che oggi non batte più. Amico è una gran bella parola ma è insufficiente per descrivere la nostra relazione. Sin dall’inizio mi ha chiamato hermano – fratello. Conoscerlo mi ha insegnato il valore della fratellanza universale che per lui era lotta politica, gioia e vita, sempre.

Sono un bulimico di libri, li compro in quantità superiore a quanti riesca a leggere. Anche quelli importanti. Poi però quando parto per un viaggio ne afferro 4 o 5 che mi seguono in valigia. Allora mi capitano cose straordinarie. Tipo leggere Le rose di Atacama non in una comoda poltrona a casa mia, ma seduto su un sasso in una strada sotto un lampione a San Pedro de Atacama, proprio in mezzo al famoso deserto. Indimenticabili i tramonti e quella lettura nel caldo del giorno e nel freddo delle notti. Terminare le pagine dentro a quell’escursione termica, per finire in uno dei tanti piccoli ristoranti improvvisati con cassette di legno al posto dei mobili e degli arredi, dove su di un piccolissimo palco altrettanto improvvisato, appare Macarena che canta. Canzoni di Violeta Parra, di Victor Jara e della cultura popolare locale. Ma che voce! Straordinaria! Da sola è già metà dello spettacolo. E poi ci sono già quei testi sinceri, potenti, sono vite e assenze raccontate con semplicità diretta, indimenticabili. Mancano solo due attori. Torno in Italia e li trovo. Mi faccio raggiungere da Macarena (che poi ad Amsterdam sposerà un cileno e resterà a vivere in Europa). E in ultimo un’idea stramba quanto straordinaria. Raccontare quella storia in una miniera, un chilometro e mezzo sotto terra. Poi, dopo un centinaio di repliche, eccoci arrivare al Teatro Agnelli e lì accade l’incredibile. Una sera viene Luis in persona a vederci. Seduto a fianco a lui, percepisco l’incredibile emozione. Forse è la prima volta che non è lui a raccontare ma a veder scorrere sulla scena la sua vita. Le sue parole si ossigenano nella bocca degli attori e prendono corpo. Sono Victor, Carmen, Allende, Marcia, il prof. Galvez e sono Luis stesso. Alla fine esplode l’applauso. Forte, intenso, appassionato, sincero. Luis chiama Carmen al telefono, le dice «ho visto lo spettacolo, è bellissimo», torna da me e dice «ho bisogno di 20 minuti da solo per poter tornare a parlare».

Molti che lo incontravano volevano che raccontasse quelle vicende. Proprio le terribili conseguenze della dittatura in Cile. Non negava quell’epoca che aveva vissuto in prima persona. Mi diceva «appartengo ad una generazione che ha vissuto giorni meravigliosi, poi la dittatura e la feroce repressione: sono state mutilazioni sociali, emozionali e in qualche forma cerco di riportare in vita quei fantasmi attraverso la memoria, attraverso i ritratti che scrivo».

Era cileno. Cilenissimo, nato a Ovalle, nel nord, vicino al deserto di sale di Atacama. Ma sua madre era mapuche, la popolazione indigena del sud. Conteneva dunque tutti i 4 mila e più chilometri di quel mondo alla fine del mondo. Francisco Coloane gli aveva fatto conoscere e amare quel sud di oceani freddi e pescatori impavidi. La dittatura lo aveva cacciato. Adesso viveva nelle Asturias, che era il paesaggio che più gli ricordava la costa cilena e dove gli abitanti, prevalentemente ex minatori, lo riportavano ai valori solidi dei suoi conterranei. Lo definivano cittadino del mondo, ma lui si sentiva cittadino dell’umanità.

Nel nostro ultimo incontro a casa sua, un anno fa, mi ha raccontato della felicità, esplosa un giorno a Madrid, per un invito inaspettato dal Console cileno che gli ha restituito la cittadinanza cilena nel 2017. 44 anni dopo il golpe che lo aveva cancellato. Per lui, così anti istituzionale, è stata una sorpresa ed una incredibile emozione. È vissuto in Argentina, Uruguay, Brasile. Paraguay, Bolivia, Perù, Ecuador, poi in Germania e Spagna, ma si è sempre sentito cileno e solo ora tornava ad appartenere alla sua nazione.

La nostra collaborazione era diretta, immediata, senza troppi giri di parole o ragionamenti. L’ultima volta che l’ho incontrato, il 12 maggio scorso, pochi minuti prima che lasciasse il Salone del Libro per tornare a Gijón, siccome sapeva che stavo lavorando alla messa in scena del suo testo sulla «Balena Bianca», mi ha chiesto come andava il processo creativo. Gli ho illustrato il lavoro che avevamo fatto e che pensavo di usare l’epilogo del libro come prologo dello spettacolo. È stato entusiasta, per lui era una grandissima idea. Gli ho detto che sarebbe stato bello avere una voce fuori campo e che sarebbe stata perfetta la sua. Mi ha detto «sì, facciamolo». L’ho guardato e gli ho risposto «Ma tu stai andando via». E lui «Dammi il testo in italiano, prendi il telefonino e registriamo». Così in un caffè rumoroso, in mezzo a gente che parlava di tutt’altro, ha voluto registrare la storia di Mocha Dick, la sua balena, e quel filmato ora apre lo spettacolo.

Mi voleva molto bene, amava molto Torino e l’Italia. Qui aveva molti amici, le persone del Salone del Libro, e prima quelli del Premio Grinzane Cavour. Stimava Enzo D’Alò (che negli anni 70 era stato nelle fila di Assemblea Teatro), amava e rispettava il suo editore Luigi Brioschi, la cui intesa era così intensa che i suoi romanzi uscivano prima in Italia che in altri paesi d’Europa, e poi Carlin Petrini e Bruno Arpaia, con cui aveva condiviso pensieri e pagine, ma su tutti Ilide Carmignani, la sua traduttrice, la sua fedele sorella, stimata per la grande professionalità e per la vita. Inutile dire quanto mi mancherà. La pena in questi giorni, con le mani legate e privi di spazi agibili, è non poterlo ricordare sulla scena con le sue parole, «le parole semplici per fare bella la lingua con cui lavoro» diceva, per condividere con tutti l’emozione della sua assenza. Ma lo faremo appena sarà possibile, lo faremo. È una promessa. Te lo dobbiamo Hermano Lucho, e sarà un modo per umiliare il virus che ti ha ucciso.

Renzo Sicco

 

 

Sepulveda 28-1

 

Luis Sepúlveda è stato un grandissimo regalo che mi ha fatto la vita, e sono grata. Con lui però se ne va una parte di me e adesso, così stordita, non trovo le parole per salutarlo, ho solo questo vecchio pezzo scritto per lui quando la strada da fare insieme era ancora lunga. Il mio pensiero ora va a Pelusa, che vorrei tanto abbracciare forte.

Davanti alla scrivania ho la foto di un uomo robusto con barba e capelli neri. Ha occhiali scuri, un giubbotto di pelle e sorride in mezzo a un fiume di pecore bianche. Dietro di lui si stende il grigio tenue di una prateria tagliata da recinti precari, pezzi di legno e filo spinato. L’uomo allarga le braccia ed è come se quel gesto aprisse la foto, la spiegasse davanti al mio sguardo. L’orizzonte non si vede, ma io so che è ampio, sconfinato, perché siamo in Patagonia. Quell’uomo robusto con barba e capelli neri si chiama Luis Sepúlveda e mi ha tenuto compagnia per vari anni della mia vita: ogni mattina mi sono seduta a tradurre le sue storie fino a sera, venticinque libri, un buon numero di poesie, due sceneggiature e non so più quanti articoli che hanno dato il loro respiro, il loro colore alle mie giornate, un filo di parole così lungo da legare a lui per sempre quei pezzi del mio passato: figli che nascevano, genitori che morivano, gioie e dolori della vita.

Una vecchia metafora sostiene che tradurre è come mettere i piedi nelle orme dell’altro, ed è grande lo sforzo per misurare esattamente il passo, perché sia di quella certa lunghezza, ora così pesante ora così leggero sulla sua terra latinoamericana. A volte manca il terreno sotto i piedi: quella prateria è fatta di erbe che non hanno nome in italiano e quell’estate accecante splende durante il nostro inverno. A volte lo smarrimento è più sottile: perché lo scrittore ha preso quel passo, perché si è avviato proprio su quel sentiero fra tutte le strade che poteva battere nella sua lingua, nella sua letteratura? L’inseguimento si fa più complicato, non basta studiare il paesaggio, c’è bisogno di ascolto. Allora, nel silenzio, risuona piano la voce di un assente, che racconta di altri e di sé e, come sempre accade, racconta di sé anche raccontando di altri. Claudio Magris ha detto che “per tradurre un colore che cala una sera su un’ansa di un fiume, bisognerebbe in qualche modo sapere cosa è stato quel vissuto, in quella sera”. Credo che sia a questa intimità estrema, quasi spaventosa, che tendono tutti i traduttori, pur accontentandosi alla fine di semplici presentimenti, piccole intuizioni, minuscole scoperte.

Qualche volta l’intimità di carta che lega il traduttore allo scrittore è scossa da un incontro reale. La prima volta che ho incontrato Luis Sepúlveda è stato più di vent’anni fa e potrei raccontarvi dell’ansia che mi tenne compagnia durante tutto il viaggio dalle colline toscane a Milano, perché un traduttore viene accolto con tenace diffidenza, non è di casa né di qua né di là dal confine che separa due lingue, due mondi, ed è sempre in precario equilibrio sul crinale sottile che divide fedeltà e bellezza. Potrei dirvi del batticuore che quella sera mi prese nella hall dell’albergo quando dall’ascensore uscì un uomo robusto con barba e capelli neri uguale preciso alla foto pubblicata sui giornali con scritto sotto “Luis Sepúlveda”. Potrei dirvi dello sguardo interrogativo che lui mi rivolse, dell’esitazione nella mia voce quando mi presentai, e dell’abbraccio da orso con cui quasi mi sollevò da terra mentre mi ringraziava per avergli prestato la mia voce davanti ai lettori italiani. Non traductora, ma compañera de camino.

Se le fotografie mostrassero anche l’altro lato e cioè la scena che ha davanti l’uomo con la barba e i capelli neri, so che vedrei un uomo magro, vestito di scuro, con la barba e i capelli rossi resi grigi dal bianco e nero, Daniel Mordzinski, il fotografo che l’ha scattata. Da quella sera di vent’anni fa, a Milano, Luis Sepúlveda non ha mai mancato di farmi sedere alla sua tavola, accanto a Daniel, a Pelusa, a Bruno, agli amici di tanti paesi lontani, per stare insieme davanti a un bicchiere di vino. E io non potrei essergli più grata per questa strada percorsa insieme.

Ilide Carmignani

Testo tratto da Salonelibro.it e Dedica Festival

 

 

 

Sepulveda Cacucci

 

Ricordo di Lucho

La grande casa di Lucho e Carmen a Gijón, immersa nel verde e con il mar Cantábrico che ruggisce sotto le alte scogliere asturiane poco distanti, narrava molto di come era lui: l’aveva scelta perché potesse ospitare tanti amici e, in certe occasioni, i sei figli con rispettivi coniugi e nipoti, e l’aveva chiamata Cruz del Sur. Di quella casa, serbo alcuni dei più bei ricordi della mia vita: giornate e nottate di interminabili chiacchierate e discussioni nel vasto giardino, risate o momenti di malinconia ricordando gli assenti per sempre, o anche assaporando le pause di silenzio, specie mentre accendeva la carbonella per l’immancabile asado, perché lui stesso ha spiegato le differenze “etniche” del rituale: gli argentini mentre stanno davanti alle braci parlano chiassosamente e si distraggono, i cileni, al contrario, si concentrano e non gradiscono interferenze, certe cose si tramandano e fanno parte di una cultura.

Ho conosciuto Luis Sepúlveda, Lucho, il cileno errante, nei primi anni Novanta, proprio nelle Asturie, dove ancora non aveva fatto base – ricordo che allora viveva in una casetta ai margini della Selva Nera, pur conservando la vaga residenza “tra Amburgo e Parigi”, come si leggeva sulle copertine dei suoi libri – ma ci andava per la Semana Negra di Gijón, fondata e diretta dal comune amico Paco Taibo II. Poi, Lucho a Gijón avrebbe trovato il clima ideale («Il primo giorno che ci sono stato pioveva forte, il secondo pioveva poco: comunque, l’aria era sempre fresca, e il paesaggio, be’, non proprio la Patagonia, ma le alte scogliere a strapiombo sul mare e la brava gente asturiana mi hanno convinto a restarci per un po’») e lì aveva scelto quella grande casa da cui ripartire spesso.

Tra i tanti viaggi, tornava quasi ogni anno in Cile, che lasciò nel 1977 per l’esilio – e solo nel 2017 gli avevano restituito la “cittadinanza”, che del resto aveva da molto tempo in Germania mentre la residenza era in Spagna – si era anche procurato un piccolo buen retiro ai margini della Patagonia, casetta affacciata sull’oceano Pacifico australe, eppure non sentiva il bisogno di restare nel Paese di nascita troppo a lungo, perché ormai non lo riconosceva più. Però restava forte l’attrazione per i paesaggi apocalittici della Terra del Fuoco, per la sterminata solitudine della Patagonia, che avrebbero ispirato alcune delle sue pagine memorabili.

I primi passi da scrittore li ha mossi al liceo di Santiago, dove pubblicò qualche poesia sul giornalino dell’istituto. Poi, nel 1964 entrò nella Gioventù comunista cilena, e i suoi racconti e poesie divennero celebri nelle riunioni sindacali, in scioperi e manifestazioni. Gli scrittori “seri” lo snobbarono. Ci rimasero molto male, quando Luis, nel 1969, vinse il Premio Casa de Las Américas con la raccolta di racconti Crónicas de Pedro Nadie. «È stato un amico a metterli assieme e a mandarli a L’Avana. Io non ci credevo, ma poi, una volta vinto il premio… be’, gli scrittori cileni affermati decisero di odiarmi apertamente. Tutti, meno uno: Francisco Coloane, che mi difese pubblicamente». Luis aveva appena vent’anni, e stimava Coloane come il più grande narratore d’avventura che mai avesse letto, e che lui metteva al pari, se non al di sopra, di London, Melville e Conrad.

Allora, non avrebbe mai immaginato che quei racconti, grazie al premio di fama internazionale, gli avrebbero salvato la vita…

E arrivarono gli anni della militanza totale, che per molto tempo avrebbe tenuto Lucho lontano dalla macchina da scrivere. Sempre nel ‘69, vinse una borsa di studio per l’università Lomonosov di Mosca, l’ateneo della nomenklatura. Lì cominciò a seguire i corsi di drammaturgia e a frequentare il giro del teatro semiclandestino moscovita, in netta contrapposizione con la cosiddetta “estetica del realismo socialista”, ma quattro mesi dopo venne espulso per “atteggiamenti contrari alla morale”… In pratica, aveva una relazione con una professoressa che era la moglie del decano. Sorrideva, raccontandomi quel periodo della sua vita: «Espulso dall’Unione Sovietica, torno in Cile e vengo espulso anche dalla Gioventù comunista. Litigai pure con mio padre, militante di ferro, e così me ne andai di casa. Tre espulsioni nel giro di tre settimane».

Il rigido Partito comunista cileno andava già stretto a Lucho, che al pari di altri partiti gemelli latinoamericani pretendeva di applicare teoria e prassi sovietiche a Paesi immensamente diversi per cultura, tradizioni e “filosofia di vita”. A quei tempi era già attivo il Mir, Movimiento de Izquierda Revolucionaria, in aperto contrasto con il Pcc, e l’Eln, Ejército de Liberación Nacional, a cui decise di aderire Lucho. Due anni prima Ernesto Che Guevara era morto in Bolivia, dove però resisteva ancora Osvaldo “El Chato” Peredo con un gruppo di guerriglieri; era il fratello di Inti e Coco Peredo, caduti con Guevara. L’Eln cileno decise di mandare alcuni volontari, e Luis fu tra loro. «Eravamo in nove, al comando di Gonzalo Arenas, che in realtà si chiamava Agustín Carrillo ed era campione panamericano dei pesi welter. Siamo rimasti sulle montagne del Teoponte fino al febbraio del ‘70. Io e Sergio Leiva, il poeta e cantautore, eravamo gli unici due cileni sopravvissuti…».

Leiva sarebbe morto tre anni dopo, durante il golpe di Pinochet. Riuscì a entrare nell’ambasciata argentina, dove si erano rifugiati alcuni dirigenti politici, per convincerli a riorganizzare la resistenza. Vi tornò una seconda volta, con l’intento di raccogliere tutti i fondi che avevano con loro, ma i militari all’esterno lo intercettarono, e lo crivellarono. A Lucho si incrinava ancora la voce, ricordando Sergio, il suo amico per la pelle con cui aveva condiviso tanto.

«Dal settembre del ‘70 al giugno del ‘71 fu il periodo della mia vita in cui dormii di meno. C’erano troppe cose da fare. Mi ero appena diplomato come regista teatrale, e con Víctor Jara allestimmo Sei personaggi in cerca d’autore, di Pirandello. La militanza era in qualsiasi cosa facessimo, e nessuno si dedicava a una sola attività in esclusiva. Per esempio, oltre al teatro, ai programmi della radio e a qualche racconto che scrissi, divenni anche responsabile di una cooperativa agricola».

Va ricordato che Víctor Jara, celebre cantautore – sua, tra le molte canzoni, la struggente Te recuerdo Amanda, poi resa internazionalmente famosa da Silvio Rodríguez – venne catturato dai militari nel golpe del ’73: gli fracassarono le mani con i calci del fucile, sghignazzando, «Prova adesso a suonare la chitarra», lo torturarono per giorni e infine gli spararono.

Dal ‘73, Lucho militava nel Partito socialista, diventando il più giovane membro della guardia personale di Allende. Il giorno del colpo di stato stava sorvegliando un acquedotto che si temeva potesse essere dinamitato, fu per questo che non morì con Allende nel Palazzo della Moneda.

«A poca distanza da me c’erano interminabili file di camion fermi per lo sciopero degli autotrasportatori contro Allende. Gli autisti ricevevano fondi direttamente dagli Stati Uniti, e avevano paralizzato il Paese. I soldati, spudoratamente in divisa, si erano incaricati di custodire i Tir abbandonati. Dall’11 al 14 settembre mi unii ad altri compagni, i pochi che avevano qualche arma, e tentammo di difendere alcune fabbriche. Ne ho visti morire a centinaia, in quei quattro giorni… Alla fine, mi ritrovai nelle vicinanze di Temuco, solo e praticamente disarmato, e il 5 ottobre, l’indomani del mio compleanno, fui catturato. Mi portarono alla caserma del Reggimento Tucapel, e per sette mesi la mia cella è stata un cubicolo largo cinquanta centimetri e lungo un metro e mezzo, così basso che dovevo restare sempre sdraiato, fra la mia orina e quella dei soldati che venivano a pisciarmi addosso attraverso una piccola grata».

È difficile immaginare come una mente umana possa resistere e non svanire nella follia, in simili condizioni. Luis Sepúlveda era certo di dovere il presente, e il futuro, alle sue letture: «Ripassavo a memoria tutti i libri di Conrad, Melville, Stevenson, Verne, Dumas… E giocavo anche a scacchi, tenendo gli occhi chiusi». Lo tiravano fuori per gli interrogatori, e non era facile, per lui, ricordare quei primi sette mesi.

«Quanti ne sono morti, di fianco a me… Poi c’erano le finte fucilazioni. Me ne hanno fatte due, e anche la seconda volta che mi sono trovato davanti al plotone, ho creduto che i fucili fossero carichi… Penso di aver assorbito tanta elettricità che ancora adesso potrei ricaricare una batteria appoggiandoci le mani sopra…». Lucho sorrise, quel giorno in cui mi raccontava tutto questo, tentando di rimuovere l’orrore con l’umorismo macabro. A un certo punto mi fissò in modo strano, e disse: «Sai che è curioso? Non avevo mai raccontato tutto questo, prima. Non con i particolari, e tanto meno a uno che lo pubblicherà da qualche parte… Che tu sia il mio dottor Freud, compadre?!».

All’epoca di queste confidenze, sul finire degli anni Novanta, gli avevo detto che intendevo raccontare almeno in parte la sua storia in un capitolo del libro Camminando, capitolo che avrei intitolato “Il cileno errante”. Non pretendevo di essere il suo minibiografo, né posso pretenderlo adesso, perché l’esistenza di Luis Sepúlveda è stata talmente intensa e ricca di eventi, che difficilmente qualcuno un giorno potrà mettere assieme così tanto “materiale” da scriverne una biografia compiuta. Forse, solo Carmen Yáñez, potrebbe farlo, quien sabe

Resta il fatto che già allora Lucho mi dimostrò la generosità che lo contraddistingueva in ogni gesto quotidiano, a lui ho chiesto tanti consigli ma mai un aiuto pratico per qualsiasi cosa: perché se poteva essermi utile in qualcosa, lo faceva di sua spontanea volontà, spesso senza neanche dirmelo prima (come ha fatto convincendo non pochi editori in vari Paesi a pubblicare alcuni dei miei libri: me lo annunciava festoso solo quando era sicuro di averlo ottenuto, «Tengo una sorpresa para ti», e se provavo a ringraziarlo, mi rifilava un affettuoso scappellotto, scuotendo la testa con il suo tipico «Naaa-na-na-na», per dirmi che le parole in certi casi sono di troppo).

Nel ‘76 la sezione tedesca di Amnesty International aveva lanciato una campagna per la liberazione di Sepúlveda, conosciuto proprio grazie a quei racconti del Premio Casa de las Américas, suscitando un vasto clamore che alla giunta militare cilena fece saltare i nervi. Non era più possibile eliminarlo in silenzio, e alla fine decisero di liberarsi da quei “calunniatori tedeschi”…

«Il 17 luglio del 1977 mi portarono all’aeroporto di Santiago. Non mi permisero di abbracciare i miei, che potei salutare da dietro una vetrata. Fu l’ultima volta che vidi mio padre, morì due anni dopo. Prima di caricarmi sull’aereo, i militari si accomiatarono dandomi una scarica di calci. Avevo in tasca un visto per la Svezia, dove mi aspettava un posto da professore di drammaturgia all’Università di Uppsala. Ma non mi sentivo ancora disposto ad allontanarmi così tanto da tutto… Allo scalo di Buenos Aires non ripresi nessun aereo, e rimasi in Argentina. Non per molto, perché in quel periodo la gente scompariva a grappoli, e certi amici fecero una colletta per mandarmi in Uruguay. Neanche lì, per quelli come me, tirava una buona aria, così passai in Brasile, a San Paolo, dove lavorai a un allestimento di Madre Coraggio di Brecht. Alla fine, visto che neppure il governo brasiliano mi dimostrava troppa simpatia, decisi di tornare al mio grande amore, il Pacifico. Attraversai il Paraguay, il nord dell’Argentina, la Bolivia, il Perù, e finalmente in Ecuador, a Quito».

E qui Lucho conobbe un mondo che tanta influenza avrebbe avuto nei suoi destini di scrittore, oltre che di militante totale ed estremo in difesa di una natura saccheggiata. Per sette mesi visse nella selva amazzonica con gli indios shuar, di cui aveva imparato la lingua e il rispetto per i delicati equilibri della Madre Terra. «Sette mesi in cui ho scoperto l’essenza della vera libertà, il comunismo utopico dal vivo e in diretta».

Da quell’esperienza, anni più tardi, avrebbe tratto il suo libro di maggior successo mondiale, Il vecchio che leggeva romanzi d’amore. Al pari del protagonista, Antonio José Bolívar, Lucho era accettato dagli shuar, ma non sarebbe mai potuto diventare uno di loro, né restare per sempre nella selva. Era l’inizio del ‘79, e dal Nicaragua arrivava un richiamo irresistibile. Si unì alla Brigada Simón Bolívar, formata da combattenti latinoamericani, e fu tra i primi a entrare a Managua liberata dal sanguinario dittatore Somoza nel mese di luglio.

Nel Paese centramericano vi rimase il tempo di partecipare attivamente al triunfo de la Revolución, e se ne andò quando cominciò a vedere gli “imboscati” ricavarsi poltrone e privilegi…

Una breve sosta in Ecuador, e quindi Lucho giunse in Europa, ad Amburgo.

«Ero stanco, e con una gran voglia di starmene in pace, anche per riprendere a scrivere».

Due anni più tardi, un mattino, passeggiando nel porto notò una barca che si chiamava Sirius; era uno dei vari equipaggi di Greenpeace, che si apprestava a salpare per una scorribanda di “guerriglia ecologista”. Lucho parlò con un neozelandese che era a bordo, e mezz’ora dopo riempiva la scheda di imbarco. Così divenne uno dei più noti corrispondenti della stampa tedesca sulle imprese di Greenpeace.

«Per quattro anni ho attraversato praticamente tutti i mari. Nell’estremo sud, tra la Patagonia e la Terra del Fuoco, ostacolavamo le baleniere, mentre nei mari nordici sbarravamo il passo alle navi militari, che trasportavano armi nucleari o scorie radioattive. Era un lavoro da formichine. Con i nostri piccoli Zodiac incrociavamo davanti alla prua costringendoli a fermare le macchine: se una nave si arresta in alto mare, i costi diventano insostenibili, e piuttosto che procedere a singhiozzo preferiscono tornare indietro, sperando di farla franca la prossima volta. Prima, però, ci riempivano di immondizie, a bidonate, e ci bombardavano con getti d’acqua: quando ci sono venti gradi sotto zero, l’acqua è mortalmente efficace. E se cadi in mare, bastano tre minuti per morire assiderati, in meno di duecento secondi il cuore si ferma. Ma abbiamo ottenuto molte vittorie, che restano tra i migliori ricordi della mia vita».

Tra le tante vicende raccolte nel suo vagabondare per il mondo, Sepúlveda aveva deciso di rivelarne una che lo riguardava molto da vicino, trovando un raro senso della misura: l’incontro di sua moglie Carmen Yáñez con la cara amica Marcia Scantlebury, avvenuto casualmente a Venezia sul finire degli anni Novanta. Oggi Carmen è poetessa di fama internazionale, Marcia giornalista affermata. Venticinque anni prima erano insieme nelle segrete di Villa Grimaldi, centro di tortura e sterminio sotto l’egida di Pinochet. Carmen venne infine gettata in una discarica. Doveva essere un cadavere tra i tanti. Qualcuno notò che respirava ancora, e il resto è quotidiana resistenza contro gli spettri del passato. Anche Marcia la credeva morta, e lo stesso pensava Carmen di lei. A Venezia, la “bruna e la bionda” hanno scoperto che non era così, davanti agli occhi stupiti e commossi dello scrittore, che su quelle due “ragazze della mia generazione” seppe scrivere un’elegia commovente.

E anche la loro storia, quella tra Carmen e Lucho – che lui chiamava affettuosamente Pelusa, o Pelu – sembra uscita dalla penna del romanziere: insieme dal 1968 e sposati nel 1971, separati dalle tragedie della dittatura, entrambi allora inconsapevoli che l’altro fosse vivo, avevano un figlio, Carlos, poi… lui esiliato in Germania e lei in Svezia, avevano ripreso i contatti grazie a quel figlio, e nel frattempo entrambi avevano formato un’altra famiglia, tre figli Lucho e due Carmen, finché… negli anni Novanta, quando i successivi matrimoni languivano, Carmen e Lucho si incontrarono a una singolare “festa di divorzio” in Germania, convocata dalla ormai ex moglie tedesca, Margarita, che aveva deciso di invitare anche Carmen, intuendo che Lucho era sempre rimasto innamorato di lei. E quella sera, Lucho le propose di trascorrere qualche giorno insieme a Parigi. Sul treno, perdendosi negli occhi di Pelusa, le scrisse una struggente poesia, La più bella storia d’amore: “Una storia possibile solo nella serena e inquietante calligrafia dei tuoi occhi”…

Al termine della breve “fuga d’amore ritrovato”, Lucho chiese la mano di Carmen… al figlio Carlos. E andarono a vivere insieme a Gijón, dove nel 2004 si erano risposati, con Carlos a fare da testimone delle seconde nozze.

E la casa nelle Asturie, la Cruz del Sur, per Natale e ancor più in estate, ospitava la riunione dei tanti figli con rispettivi coniugi e, via via, dei nipoti che nascevano, i veri responsabili delle memorabili favole narrate da Luis Sepúlveda, tutte, o quasi, nate dal piacere del abuelo, nonno Lucho, che inventava storie per i nuovi arrivati. Per il suo settantesimo compleanno, nell’ottobre scorso, c’erano tutti, alla Cruz del Sur: Carlos, Sebastián, Amadeus, Max, León, e Paulina, l’unica donna tra cinque fratelli maschi.

Tradotto in quasi tutte le lingue, Luis Sepúlveda, in ciascuno dei suoi tanti libri, sembra riaffermare quello che è il motto di una vita intera: narrare è resistere. Resistenza della memoria contro l’oblio.

E l’oblio, in Sepúlveda, è il nemico subdolo che ricopre di cenere le vite di personaggi meritevoli di immortalità: ogni sua pagina riscatta frammenti di memoria trasformandoli in voci, suoni, presenze palpabili, sensazioni conosciute, e poco importa chiedersi quanto vi sia di autobiografico, perché comunque «la scrittura arriva dopo la vita vissuta, e la vita verrà sempre prima della scrittura», come amava ribadire.

Qualche mese fa, cercando chissà cosa nei meandri del computer, è saltata fuori questa foto. Gliel’ho fatta vedere, e Lucho mi ha risposto: «Quanto eravamo giovani, compadre!».

Pino Cacucci

Testo tratto da Cantierebologna.com

 

 

Nicola Lagioia ricorda Luis Sepúlveda

 

 

 

Dal nostro archivio:

Un mese è passato – RICORDANDO LUIS

 

 

 

Sepulveda 21

 

 

Altri pensieri per Luis

 

 

 

 

 

Riceviamo da Michele ed Antonella, spettatori de “Le rose di Atacama”, il tenero video in ricordo e omaggio di Luis Sepúlveda

 

 

 

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SEPULVEDA memoriam

 

 

 

 

4 Responses to : È morto Luis – IL NOSTRO RICORDO

  1. Eleonora Bardella says:

    Oggi ho appreso della morte di Luis Sepúlveda. Ora piango con voi. Buon volo, Luis

  2. Dino says:

    Addio: ho sognato con i tuoi scritti e immaginato la tua Patria.

    Buon viaggio
    e hasta luego

  3. Claudia Bergantin says:

    Dove sei ora? Forse su una pista meravigliosa, che arriva alle rose di un deserto amico, forse su curve di cielo che penetrano dentro il canto delle balene e con poderosa onda lo rimandano a risuonare fra i romanzi che un vecchio sta leggendo ai bordi di una foresta in fiamme. Ti ringrazio per quel che mi hai dato e che ancora mi darai.

  4. Letizia says:

    Un forte abbraccio a te Renzo e a tutti voi da me e da tutto il Coro. E grazie per averci fatto cantare con “Le Rose di Atacama”.

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