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SULLA PELLE VIVA – Come si costruisce una catastrofe. Il caso del Vajont

23 settembre, 2013 - 21:42
un libro di Tina Merlin
Tra pochi giorni, esattamente il 9 di ottobre, l’Italia ricorderà il Vajont.
Con qualche giorno d’anticipo, e in vista di un appuntamento che il Comune di Rivalta, in collaborazione con Assemblea Teatro, presenterà alla Cappella del Monastero, ho ripreso tra le mani un testo che mi ha indicato Renzo, il libro-documentario che Tina Merlin, giornalista “di provincia” del bellunese, ha lasciato perché il Vajont non fosse mai dimenticato. Lo consiglio come preparazione ad una giornata che sarà doverosamente memoria di 1918 caduti, 5 paesi distrutti – Longarone, Pirago, Maè, Villanova, Rivalta , 270 milioni di m³ di Monte Toc franati e 30 milioni di m³ d’acqua caduti dal cielo.
Da principio stupisce leggere una bellissima prefazione di Giampaolo Pansa, al tempo giovanissimo inviato de La Stampa, che con il distacco di coloro che possono oramai permetterselo, ma assumendosi la propria responsabilità sino in fondo, descrive l’unicità di Tina Merlin, del suo lavoro, difronte ai mostri sacri del giornalismo italiano – dell’Italia nel suo complesso –  che quella mattina a Longarone, e nei giorni successivi, non capirono un bel niente di cosa fosse accaduto. Non delle scuse, più semplicemente un non retorico atto dovuto.
La natura malvagia, la natura imprevedibile che scaglia in pochi secondi una bomba d’acqua e che uccide 1918 persone. Punto. Un dramma da raccontare e da dimenticare, per proseguire.
Ma per Tina, che il Vajont lo seguiva dagli Anni ’50, la natura non c’entrava un bel nulla. C’entravano l’ingordigia, l’arroganza, il profitto, il potere, la corruzione, insomma l’uomo, non la natura. E la società. Una società incapace di progredire serenamente, capace invece di lasciare mano libera a pochi potenti e politici contro i molti incapaci di difendersi …. e la scinza, la scienza che si sottomette al denaro, perdendo così qualsiasi valore di verità, relativizzandosi per poi non voler farsi processare da alcuno.

La montagna attraverso le sue parole recupera dignità, diviene da carnefice, vittima. E’ la montagna depredata del dopo guerra, la montagna svuotata, ripulita, conquistata, spesso dimenticata, sfruttata.
Tina Merlin, che attraverso lo stratagemma delle carte processuali, degli articoli, di lettere e documenti e di tanti ricordi fa un puntuale riassunto di cosa avvenne sino a quel 9 ottobre, ci lascia con il forte dubbio che questo Paese non possa davvero cambiare, che sia paludoso oltre ogni ragionevole dubbio. E poi proseguire, leggere “il dopo”, ultime pagine forse ancor più tristi.
Alzati gli occhi dal libro scorrono ancora le immagini, che però vanno a tutto il resto che l’Italia non affronta, che ha perso per strada, ai tanti lasciati soli a combattere in processi “farsa” che durano anni, che non riescono neppure ad avviarsi, o che, al contrario, dopo partenze fulminanti, si sgretolano con il passare inesorabile del tempo.
Gli operai e la sicurezza – Tissenkrupp o l’Eternit – L’Aquila e i tanti terremoti, le grandi opere e l’incapacità di dialogare, di spiegare, sino alle stragi e agli anni bui, ai misteri, passando per una politica cieca, e una società inerte.
Tina Merlin è morta da molto tempo, ma la sua battaglia l’ha scritta perchè nessuno potesse, morti gli ultimi depositari di questa storia, dimenticare.
Insomma, una “partigiana”, cui offrire attenzione per continuare il suo percorso.
Basta questo per consigliare la lettura.
Alberto Dellacroce

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