Informativa Cookie

Radici profonde che tornano in superficie

13 novembre, 2017 - 21:09

L’occasione di riparlare del nostro spettacolo RADICI PROFONDE sulla storia di Dino Pogolotti e del nostro viaggio e allestimento a Cuba mi ha fatto riprendere in mano le pagine di una ricca conversazione avuto con la giornalista Maura Sesia in quell’occasione.

Siccome ben s’inserisce nelle riflessioni sui nostri 50 anni non mi dispiace farle ripubblicare per quelli di Voi che vorranno rileggerlo o leggerlo per ricordare o saperne qualcosa di più.

Renzo Sicco

 

ASSEMBLEA TEATRO A CUBA
Radici profonde. Il secolo dei Pogolotti

Conversazione con Renzo Sicco – direttore artistico di Assemblea Teatro

Assemblea Teatro cerca e coglie le occasioni, parla all’uomo contemporaneo perché non dimentichi. La memoria è un vostro tema precipuo?

Oggi è diffusa, da parte del mondo teatrale, l’attenzione al concetto di memoria; questo può comportare dei rischi. Quando si parla molto di un argomento può diventare modaiolo, di tendenza. Nello specifico di Assemblea Teatro la memoria è una costante storica; ci piace sempre unire alla ricerca della modernità, dell’innovazione linguistica e del rinnovamento nelle tematiche, la ragione delle radici, in quanto tracciato necessario per conquistare solidità nel presente. La nostra quindi non è una esaltazione della memoria, bensì una necessità identificativa. In questo senso sicuramente Assemblea Teatro tributa alla memoria un’attenzione particolare, poi ci sono state fasi in cui è stata anche un grido; è il caso dello spettacolo Più di mille giovedì La storia delle Madres de Plaza de Mayo in cui il ricordo, oltre ad essere necessità, era anche denuncia, e diventava addirittura la capacità di restituire corporeità a chi non c’era più. Memoria come segnale etico ed  imperativo di vita.

Assemblea Teatro si costituisce nel 1967. Ha superato ormai i cento spettacoli, ha in repertorio lavori che si replicano da più di vent’anni. La tipologia è molto variegata, vi siete ispirati alla narrativa, alla cronaca, alla storia, avete allestito testi di drammaturghi, ma la maggior parte sono riscritture. Qualsiasi pretesto può originare teatro?

 Sì, purché sia ovviamente un pretesto che nasce da una scintilla di verità, di bisogno, di urgenza. Tutto questo può avere due origini. Uno stimolo interno, ad esempio, ha fatto scaturire L’aria triste che amavi tanto. L’idea di un Omaggio a Luigi Tenco è sempre stato soprattutto un mio desiderio felicemente condiviso, perché è un autore musicale verso il quale ci sentivamo in debito generazionale, nel suo tempo avevamo l’età in cui i testi di una canzone hanno anche un valore formativo. Lo spettacolo su Dino Pogolotti viene invece da un’idea esterna, ci è stata suggerita l’attenzione su una storia e questa vicenda ci è piaciuta. I modi di approccio ad un allestimento sono questi due, interno o esterno alla compagnia. Anche nel caso di Fuochi ci è stato consigliato lo studio dell’epopea valdese e noi abbiamo attivato, allora come oggi, quella curiosità che è un nostro marchio di fabbrica. Se non fossimo curiosi probabilmente certe scintille, che altri ci offrono, non ci avrebbero infiammato.

Il rapporto con il pubblico: per voi è prioritaria la relazione con il cittadino? Vi rivolgete allo spettatore proletario?

 Il pubblico proletario è sempre esistito nel tracciato di Assemblea Teatro, se ne deduce l’importanza dal suo stesso nome, da prima quindi che lavorasse il gruppo attuale. La compagnia è nata dalle assemblee operaie e da quelle del movimento studentesco, il quale forse proletario non era, come diceva Pasolini, ma certamente era molto interessato agli operai. Proletario oggi è un termine obsoleto, si parla piuttosto di fasce deboli, marginali. Nella nostra storia c’è una precisa scelta in questa direzione, il nostro teatro non è in centro città ma in periferia, il nostro intervento, spesso e volentieri, incrocia progetti periferici. Alle fasce deboli noi siamo sempre arrivati perché abbiamo un pubblico trasversale, non di classe. Quello che è stato ed è rimasto chiaro in Assemblea Teatro, quello che ci interessa, non è un’appartenenza di ceto o politica. Certo, ci importa fare un teatro politico, un teatro di vita che parli di problemi odierni. Questi temi riguardano in particolare le fasce deboli, ma non soltanto quelle.

Un’altra vostra caratteristica è la duttilità degli spazi scenici: strada, miniera, piazze, mausolei, fortezza, cimiteri d’auto, teatri, sono per voi luoghi paritari, vivificati dagli spettacoli.

 Sono palcoscenico tutti gli spazi che suggeriscono interesse, o meglio, anche qui, manteniamo il termine “scintille”. Non tutti i luoghi in sé sono teatrali, perché il teatro si nutre di polvere, polvere vera. Questo l’ho imparato da Lindsay Kemp. Quando ho visto i suoi spettacoli mi affascinava, oltre all’effetto complessivo, anche la peculiare bellezza dei costumi, della scenografia, e quindi immaginavo una ricchezza portentosa alla quale noi non potevamo aspirare.  Nel momento in cui però ho lavorato con Kemp, ho scoperto che tutte quelle scene, quei costumi, erano vecchissimi, logori, molto impolverati. Erano pezzi di stoffa che si stavano sdrucendo e scucendo tanto erano stati usati. Ho quindi capito, e Kemp in questo è stato maestro, che più porti il sedimento in scena e più questa acquista forza. Ho compreso che anche la selezione degli spazi deve essere oculata, ci sono luoghi che hanno un carico di polvere molto grande (come la Fortezza di Fenestrelle o la miniera Paola di Prali), in cui il senso teatrale della bellezza può diventare “brillante”.

Negli spazi anomali per il teatro il vostro lavoro può causare impreviste ricadute economiche, incentivando il turismo. Forse non fu casuale che ad Alpignano sia nato un ecomuseo, dopo il vostro spettacolo “E il matto illuminò la notte”, dedicato nel 1998 al piemontese Alessandro Cruto,  inventore della lampadina.

 Sicuramente è vero, non è stato casuale, benché non fosse un progetto insito nello spettacolo.  Da un’altra pièce sono nati tutti i percorsi e le visite guidate alla Fortezza di Fenestrelle, da un’altra ancora si è potenziata l’attività all’Ecominiera di Prali, cosa che si è tradotta in una ventina di nuovi posti di lavoro. Questi sviluppi non li determina il teatro progettualmente, li crea un teatro che è politica, un teatro che decide di lanciare delle provocazioni, dei semi, delle riflessioni attive. Nel nostro percorso queste intenzioni ci sono; possiamo anche citare il Festival di Villa Faraldi, una rassegna sorta ventuno anni fa, quando non si parlava ancora tanto come oggi del rapporto tra cultura e turismo, però quel Festival incarnava quella relazione; ha rappresentato la capacità di intravedere, con quindici anni di anticipo, che la connessione tra territorio e richiamo turistico poteva essere una chiave per inventare un approccio culturale diverso. Abbiamo sempre avuto coscienza delle eventuali ricadute, senza che queste abbiano mai influenzato il prodotto artistico. Lo spettacolo non si genera in funzione dell’idea di aprire un ecomuseo o di far funzionare una fortezza, nasce per ricollocare, proprio in quel luogo, un’emozione.

Avete dedicato uno spettacolo ad Alessandro Cruto, scopritore eccelso e misconosciuto, come per rendere giustizia alla memoria. In questo senso di riscatto sono paragonabili il lavoro su Cruto e quello su Pogolotti?

 Il confronto con Cruto è esatto, perché anche in Pogolotti il tema è la memoria come riscatto, è come se dicessimo “riprendiamoci quanto ci è stato negato”. Nel caso di Cruto era un attimo di luce, oscurata dalla superpotenza economica nordamericana che ha fatto di Edison e non di Cruto il personaggio famoso. Non si tratta però solo di singoli individui, l’affinità tra i due testi si riconduce anche ad un discorso ampio di radici comuni, è il riscatto di un’area geografica importantissima nella storia d’Italia ma poi sottovalutata. Parlo del Piemonte, caparbio e cocciuto nel caso di Cruto, caparbio e cocciuto nel caso di Tenco (conosciuto come ligure mentre era piemontese), cocciuto, caparbio, transoceanico nel caso di Pogolotti.

Assemblea Teatro in questi ultimi anni si è gradualmente avvicinata al Sud America, lo si desume sia dagli argomenti sia dagli autori a cui vi siete ispirati. In tale humus si innesta il progetto Cuba?

 Confermo che nell’ultimo periodo l’attenzione di Assemblea Teatro si è focalizzata sul Sud America. C’è una vocazione della compagnia, ma soprattutto mia, verso le culture ispaniche. La mia formazione teatrale avviene a Barcellona, con gruppi come Els Joglars, Els Comediants, espressioni della nuova Spagna post-franchista. Questa influenza caratterizza la mia curiosità; io sono curioso a tutto campo però, se devo scegliere tra un libro di autore latino-americano e uno scritto da un indiano, istintivamente prendo quello latino-americano, semplicemente perché il mio impulso, il mio sangue mi porta lì. Mi ci riconosco immediatamente, non sono costretto ad adattare la mia curiosità. Con quello che è ispanico scatta un meccanismo fulmineo di osmosi. Per quarant’anni ho provato questa grande attrazione a livello intellettuale, poi, dieci anni fa, sono andato per la prima volta in Sud America; mi sono regalato un tempo per conoscere direttamente il mondo che avevo sempre sognato nelle pagine di Marquez, di Vargas Llosas, e dei tanti scrittori che ho amato. Mi ero imposto che quel viaggio fosse uno spazio di vacanza, tuttavia il lavoro è scoccato subito, forse perché la mia dimensione personale e quella professionale collimano. Ad un mese di riposo sono seguiti tre giorni intensissimi di lavoro, dai quali sono sbocciate tante possibilità: quelle che ha percorso la compagnia nei dieci anni successivi. Assemblea Teatro è stato, credo di poterlo affermare con tranquillità, il gruppo italiano più presente nell’ultimo decennio in Sud America, con 13 tournées e migliaia di spettatori; una rete di sudamericani ci segue sul nostro sito web, ci scrive, ci chiede quando andiamo, si è creato un passaparola di nazione in nazione, c’è gente che si sposta dall’Uruguay in Argentina e viceversa per venirci a vedere. Credo che questi siano i risultati di un teatro inteso come radicamento, non come colonizzazione culturale, non è questo il nostro tipo di attitudine. Se sei tu che ami e cerchi le cose, questa passione può ingrandirsi a tal punto da far sì che siano le cose a trovare te. L’idea di Pogolotti infatti non è venuta a noi: alcuni funzionari della Regione Piemonte hanno intercettato in noi il soggetto possibile per interpretare il desiderio di traduzione teatrale di questa bella storia incontrata.

Quali sono le fonti di “Radici profonde. Il secolo dei Pogolotti”? Epistolari, diari, fantasia, cultura personale?

 Innanzitutto nel testo parecchie fonti sono autentiche, non ci siamo permessi di inventare le parole di chi ha vissuto la migrazione. Tutto quanto la riguarda è basato su lettere e diari, di Dino ed altre persone a lui compatibili. Naturalmente qualche sezione è frutto di immaginazione, perché certi passaggi nella vita di Dino risultano molto interessanti ma sono da reinventare in termini di scrittura teatrale; in sé non avrebbero avuto la stessa forza e a noi non interessava la semplice narrazione biografica. Abbiamo trasposto teatralmente individuando chiavi interpretative; l’incontro tra Dino e Grace nella scena del bar, ad esempio, ammicca alla commedia dell’arte, ad una forma tipica del teatro italiano. Abbiamo tradotto quella realtà attraverso la maschera, servendoci di personaggi o situazioni grottesche.

La pièce coniuga  classico e contemporaneo. Ci sono i  flashback del cinema, c’è il coro della tragedia, ci sono i ciechi, cantori e preveggenti, nel nostro immaginario, da Omero in poi…

E’ un testo che definirei meticcio perché Cuba è un’isola meticcia. Da questa constatazione deriva la nostra volontà di mescolare. Non è un’operazione post-moderna che appiccica sensazioni diverse; una profonda necessità è alla base di questa miscela, che serve a descrivere il luogo in cui Dino, questo piemontese, è approdato. E’ un testo meticcio anche teatralmente, sia per il contenuto sia per i generi di spettacolo, rispecchia il quartiere di Pogolotti, che non è semplicemente una parte de L’Avana. E’ un barrio tra i più conosciuti e singolari, perché è il quartiere nero, in cui si trova la cultura della santeria, che è fondamentale a Cuba; è un luogo interreligioso, nel barrio Pogolotti si praticano tante fedi, quindi il meticciato è una sua costante. Rispetto al tema della cecità, è vero che Marcelo e Graziella sono ciechi, ma se Dino e Marcelo sono ormai morti, Graziella è viva e non è una cubana anonima, è una prestigiosa portavoce culturale dell’isola. L’effettiva cecità di Graziella non trapela dal testo, e lei stessa, pur comparendo, resta una figura marginale, perché, per una scelta di pudore, per rispetto verso i suoi avi e le sue radici, Graziella ha voluto che i protagonisti fossero suo nonno e suo padre, non lei.

Nel testo ci sono tanti accorgimenti per esprimere il sincretismo culturale e religioso di Cuba:  testimonianze  gastronomiche,  farmaceutiche, magiche…

 In “Radici profonde”, come nel caso di “E il matto illuminò la notte” (e anche questo può consolidare l’analogia), ho fruito della collaborazione di Fabio Arrivas. Avevamo scritto a quattro mani il lavoro su Cruto e anche in “Radici profonde” Fabio ha contribuito alla redazione. E’ un intellettuale molto attento nel ricostruire dati storici, è sua la ricerca alla base della scena in cui si confrontano ricette affini, piemontesi e cubane, entrambe autentiche. Questo brano è funzionale ad inquadrare Grace, che è un personaggio molto toccante nella saga dei Pogolotti; di lei dovevamo trasmettere il turbamento, l’inquietudine di una donna che abbandona il benessere, che lascia il cuore del mondo, New York, per andare all’avventura, per seguire un sogno d’amore destinato a stemperarsi. Grace si trova perduta in una vita che ha scelto ma da cui aspettava altre cose, le rimane solo il grande affetto del figlio Marcelo. Lo stordimento di culture, anche alimentari, ci è servito per rappresentare l’incertezza di Grace, che di fatto ha conosciuto bene la cucina piemontese. In Piemonte infatti ci è tornata spesso; lei però, così strana e così moderna, nel Piemonte del primo novecento è vissuta come una masca o una strega: non a caso una terrorizzata vicina di casa confonde la voce del grammofono di Grace con quella del demonio.  Nel testo ci sono le streghe perché le masche (cioè streghe in Piemonte) sono le radici di Dino, che si troverà ad abitare in una casa a Cuba dove, sotto un albero sacro in giardino, sono portati ogni notte doni votivi. Anche in questo caso le radici, metaforicamente intese, si mescolano. Va sottolineato che tutto questo Dino lo capisce e lo tollera, dimostrando un’enorme capacità  anticipatoria. Non dimentichiamo che Dino viene dal seminario, sarebbe dovuto diventare prete, avrebbe potuto essere molto intollerante, piantando semplicemente, in quel giardino, la sua croce; non solo non lo ha fatto, ma si è confrontato con queste misteriose altre culture. Se qualcuno sceglie l’alterità, lo sradicamento, impara a confrontarsi con l’altro. Credo che questa sia una lezione notevole, qualcosa di importante che Dino può insegnarci. A cosa servirebbe altrimenti dedicare uno spettacolo ad una persona vissuta cento anni fa? Può essere solo memoria, oppure si possono trarre, da quella esperienza, indicazioni utili al presente. Penso che questo aspetto della storia di Dino sia molto interessante oggi, in un mondo che non sa accettare il diverso, che guarda con sospetto il vicino di casa o addirittura gli fa la guerra.

“Radici profonde” avrebbe potuto essere incentrato sui rapporti famigliari contrastati: Dino trascura Grace, Marcelo si schiera dalla parte della madre avversando il padre, Dino è come isolato dai suoi fratelli migranti che proteggono Grace, di fatto abbandonata.

 Io capisco molto bene Marcelo perché la mia vicenda familiare è stata di contrasto col padre, che era un piemontese verace esattamente come Dino. Mio padre è stato, nel suo campo, un grande inventore. Si occupava di commercio di frutta e verdura ed ha importato, tra i primi a Torino, la renetta del Trentino, oggi notissima; ha compiuto un’operazione, nel suo specifico, rivoluzionaria, come quella di Dino. Io mi sono ritrovato molto in Marcelo. C’è però una differenza forse grandissima fra Dino e mio padre: Dino ha accettato la vocazione artistica di Marcelo, mio padre mi ha molto osteggiato, almeno inizialmente. I due personaggi mi sono affini, mi ci sono affezionato. Ho capito bene le difficoltà di Marcelo, il suo amare tanto la madre e l’addossare colpe al padre, che sicuramente Dino ha avuto ma che spesso non sono imputabili, si tratta semplicemente di percorsi della vita che ti allontanano da persone che hai fortemente amato, perché sono convinto che Dino e Grace si siano amati. Raccontare questi aspetti sarebbe stato forse puntare sulla saga, a me non interessava, né volevo costruire eroi a forza, mi premeva semplicemente valutare quanto di meraviglioso hanno realizzato i Pogolotti. In questa storia, che attraversa un secolo, mi stimolava quello che era ed è fortemente umano, una dimensione cioè che potesse essere oggettivata. “Radici profonde” è un testo che parla a chiunque, perché tutti possono trovarvi tracce di storie e della Storia soprattutto. Cuba è parte integrante dell’America latina. C’è stato quindi un mio altro grande ispiratore, lo scrittore Eduardo Galeano. Prima di scrivere “Radici profonde” ho riletto Galeano, in particolare la “Trilogia del Fuoco”: sono volumi che narrano la storia dell’America latina attraverso microracconti, brandelli di cronache. Intanto è uscito l’ultimo libro di Galeano, “Le labbra del tempo”, che è stato per me un altro faro, aiutandomi a trovare, nella vicenda soggettiva dei Pogolotti, elementi tipici dell’esistenza di qualsiasi sudamericano.

Una simbologia peculiare, spesso mutuata dalla natura, arricchisce i testi di Assemblea Teatro. Le farfalle di cui si parla in “Radici profonde” sono una metafora del destino di Dino?

 Le farfalle sono un suggerimento indiretto ritrovato in Galeano, rappresentano il colore, la fantasia, la leggerezza, ma sono anche l’ostinazione, il coraggio di viaggiare. E’ una metafora che mi ha affascinato perché quando noi pensiamo agli emigranti ce li figuriamo attraverso un’immagine grigia, vediamo abiti stinti, valige scolorite e sacchi della spazzatura, ovvero gli odierni bagagli dei magrebini che sbarcano a Lampedusa, di rado abbiniamo agli emigranti note di colore. Tradurli in un volo di milioni di farfalle variegate credo significhi restituire splendore alla bellezza che è insita nel loro mondo. Le farfalle sono un simbolo ed un modo per ribaltare l’immagine grigia che noi ci siamo costruiti, e ridare forza alla dignità. Pogolotti ci dimostra che un emigrante può fare grandi cose, non è semplicemente forza bruta che si sposta da un paese in cui non c’è lavoro ad un altro, può essere un’intelligenza che si muove e va a creare altrove.

Ancora a proposito dei simboli dalla natura, cosa celano in “Radici profonde” il mare, il vento, l’albero?

 Gli elementi naturali simboleggiano il confronto tra culture, come nella sequenza sulle erbe curative. Approfondendo il discorso, noi parliamo di un secolo di Pogolotti; andando a ritroso, c’è Graziella, che è viva, c’è Marcelo, che vive il centro del secolo passato, e c’è Dino, che proviene dal 1800. E’ un secolo lontano, ed è molto difficile per noi capire quegli anni. E’ però ineludibile, se vogliamo comprendere Dino. Nel testo, la prima volta che lo incontriamo, ci incanta con una definizione del tempo. Dino racconta che per andare in America alla fine del XIX secolo ci volevano 45 giorni. Adesso in poche ore di volo sei arrivato. Un viaggio di 45 giorni significa che emigrare non era alla portata di tutti, anche dal punto di vista della resistenza fisica, significava affrontare un’altra dimensione. La drammaturgia, rispettando la realtà, è piena di spostamenti rilevanti, Dino va a New York, Dino e Grace vanno a Cuba, Grace va da Cuba a Giaveno per curare Marcelo, Grace e Marcelo tornano a Cuba, Marcelo si reca a Parigi, Marcelo fugge dalla Francia occupata dai nazisti e rientra a Cuba, Dino va a morire in Italia: il mare è una costante di attraversamento e la presenza dell’acqua assume anche il valore di un abbraccio. Non si scatenano spaventose tempeste che impediscono questi andirivieni. La scelta di elementi metaforici naturali spiega cosa era il tempo allora, e quanto diverse fossero le fonti di gioia, piacere, dolore: questi sentimenti provenivano da fatti molto concreti, quotidiani, non dall’effimero, dal consumismo, dalla metodologia seriale a cui siamo abituati oggi. Sono accorgimenti necessari per spostare la mente dell’ascoltatore o dell’osservatore in un tempo passato e così distante. Inoltre, questo per me è stato un impegno inconsueto; è la prima volta nella mia vita, nel mio amore per il Sud America, che ho scritto pensando ad uno spettatore latino-americano, perché lo spettacolo debutterà in prima mondiale a Cuba e solo successivamente sarà allestito in Europa. Immaginando di rivolgermi a quel pubblico, ho considerato che lì, la natura e il tempo, contano di più, per fortuna…hanno ancora un valore, se da noi è necessaria un’operazione di recupero, lì un albero è ancora un albero, ed è carico di tutta la sua simbologia per l’esistente che è, tronco, rami, foglie, non devo effettuare anche una sorta di trasferimento culturale per farmi capire. A Cuba oggi un albero ha ancora un valore figurato.

Assemblea Teatro si rivolge appunto in primis, in questo caso, ad un pubblico che i valori dei simboli li percepisce, li comprende, li condivide. Il testo riuscirà a portare anche in Europa questo messaggio di semplicità, di approccio più immediato e sereno con quanto ci circonda?

 Credo che sia possibile. Soffermiamoci sull’albero. All’interno di questo spettacolo per me è molto importante, per due ragioni. Il testo si chiude, visivamente e trasversalmente, attorno ad un albero, che è una grande metafora: equivale a radici, gioia, festa, possibilità di congiunzione con chiunque. Questo solare quadro conclusivo mi è stato suggerito dall’esperienza di Villa Grimaldi, la più terribile prigione di tutto il Sud America, in quanto carcere personale del più spietato dittatore del XX secolo, Augusto Pinochet.  Villa Grimaldi è stata un luogo di enorme violenza simbolica e fattuale. Quando in Cile è tornata la democrazia i militari, per cancellare le prove, hanno bruciato la villa e il parco. La  natura però ha ridato vita agli alberi. I parenti delle vittime, in pellegrinaggio tra quelle macerie, quando gli alberi hanno ricominciato a crescere hanno letto, in quei rami e in quelle radici, un simbolo del ritorno alla vita, un’ideale resurrezione per coloro che lì erano scomparsi. Quel parco è diventato museo della memoria. Nell’unica pianta che non è arsa completamente, nel suo interno cavo, ogni settimana un prete cattolico celebra una messa, ponendo l’altare nel tronco vuoto. Ognuno dei presenti trova in quell’albero il suo rituale. Cito questa esperienza per dimostrare quanto la simbologia abbia forza in situazioni estreme. La natura qui è come il verso di una poesia o di una canzone in altri contesti disperati; alla mia domanda “come hai fatto a sopravvivere”, rivolta ad ex carcerati, la risposta è stata “qualcosa di bello mi ha salvato”, ed erano magari le parole di un poeta. Questo ci rivela sia la possanza delle parole, che noi qui smarriamo, sia il senso degli emblemi, che oggi non sappiamo cogliere perché siamo in overdose di simboli fasulli, come quelli della pubblicità. “Radici profonde” è uno spettacolo in cui l’albero ha un significato poderoso, perché lo spazio scenico, a Cuba, sarà una piazza del barrio Pogolotti, il parco Finlay, con al centro un albero. Non è però una pianta qualsiasi, è un emblema della vita, della possibilità di difendere l’umanità: sotto quest’albero c’è una casetta, ora monumento nazionale, in cui lo scienziato cubano Carlos Juan Finlay fece gli esperimenti che lo portarono a scoprire la causa della malaria; erano le zanzare a trasmetterla, e quella malattia è stata l’Aids del secolo scorso, ha falciato milioni di vite minacciando la cancellazione del genere umano. E’ un grande albero, molto bello, latino-americano, con rami robusti sui quali  si può salire: insieme a quella casetta sarà il centro del mio palcoscenico. Quando porterò lo spettacolo in Italia, l’unica condizione che mi porrò, sarà di allestirlo in un luogo in cui ci sia un albero simile…l’ho già trovato…so già dove andare…

“Radici profonde” è ripartito in dodici scene; si contano, tra maggiori e minori, dieci personaggi e un coro, che assume identità diverse. Tra i protagonisti  il più misterioso è Pixel, che non ha un riscontro storico, come Dino, Grace, Marcelo, Graziella. Chi è Pixel?

 Il pixel è, all’interno del nostro computer, uno delle migliaia di punti che formano le immagini, quindi è un punto del tutto. Infatti Pixel non ha tempo, dice di sé “io c’ero già, ci sono, ci sarò ancora…”; a me serviva una figura che unisse teatralmente i tre personaggi chiave, Dino, Marcelo, Graziella, partecipando contemporaneamente alle loro storie. Pixel è questo artificio, un elemento che accompagna l’uno e l’altro, prende spezzoni di vita dei tre e li ricongiunge.

Nella religione afro-cubana esiste la famiglia allargata, costituita cioè dai viventi e dai trapassati;  avete trasposto questo modello in Piemonte? Anche in “Radici profonde” il dialogo tra vivi e morti continua…

In qualche modo sì. Però quello che volevo evidenziare di Dino, la prima cosa che mi ha colpito fortemente, è la circolarità della sua vita.

Ovvero il suo concetto di identità, di suolo patrio. I Pogolotti cercano e trovano, ciascuno a suo modo, la propria terra. Ma qual è la nostra terra?

Lo spettacolo è una bella risposta alla ricerca della nostra identità: le radici stanno dove noi le collochiamo. Marcelo dice “la mia identità è l’arte”, perché evidentemente per un artista è così, cioè non è semplicemente una terra, è anche i mondi possibili che io posso inventare; per Marcelo una delle sue terre sono i suoi quadri, le sue pitture, però lo scorrere di un’esistenza raminga gli fa via via acquistare un’identità di relazione con quell’isola, oggetto di tanti contenziosi. Ricordiamoci che Marcelo vive anche le crisi di Cuba, i conflitti nella geografia politica del ‘900 dove il mondo, prima della caduta del muro, era diviso a schemi, e dove Cuba, ovviamente, stava in un campo avverso a quello degli Stati Uniti; poi questo  prosegue anche oltre la caduta del muro, perché sappiamo che l’embargo nei confronti di Cuba è ancora in atto. Marcelo respira tutto questo e nella diatriba attorno a Cuba rafforza la propria identità di cubano. Dino non è un piemontese nostalgico, la sua identità scatta in alcuni momenti focali: ritorna a morire a Giaveno, ma già prima predice la salvezza di Marcelo solo a Giaveno. Dino ha un radicamento fiducioso, ha una sicurezza nei confronti del suo passato, della sua terra; quando suo figlio primogenito rischia di morire, Dino dice “quell’aria è l’unica che lo può guarire”. Sembra una boutade, e invece succede, anzi rammento che è molto piemontese; anche mio padre, quando qualcuno in famiglia stava male, diceva “vai a bere quell’acqua”; zampillava da una fontana vicino al paese, non aveva niente di miracoloso, ma era l’identificazione con qualcosa di sano, con una radice che sgorga salute. Ritengo questo modo di pensare  connaturato all’identità piemontese e ho reputato da subito molto suggestiva la circolarità della vita di Dino, una grande figura nella sua estrema quotidianità.

 

Lascia una risposta

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

*

You may use these HTML tags and attributes: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <s> <strike> <strong>