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Marco Pejrolo, il poeta della streetphotography

11 aprile, 2014 - 00:00

prorogata fino al 7 giugno 2014!

Dato il successo di queste 4 settimane, la mostra fotografica di Marco Pejrolo rimarrà aperta sino ad inizio giugno. Se l’avete già visitata, avete l’occasione di portare nuovi amici, nel caso contrario, non perdetevela!

un’intervista di Sarah Palermo – Officine International

 

Marco Pejrolo, fotografo, regista e attore che ama raccontare con i suoi scatti i viaggi che da anni lo conducono dalla sua Torino alla Germania, dove vive, fino alla scoperta di territori come l’Argentina e l’Uruguay, espone la sua vita da eterno narratore del mondo, suo terreno di ricerca che rappresenta con la curiosa maniera del trittico, una storia da conoscere ed esplorare quella che sarà in mostra presso Chave arredamenti di via Pietro Micca – Torino.

“Cominciamo col dire che sono un fotografo poco canonico, almeno per quel che riguarda la sua formazione. Non ho frequentato l’accademia di belle arti, non ho fatto corsi di fotografia. Ho imparato guardando i grandi maestri, leggendo moltissimo, studiando, sbagliando, correggendomi e non smetto di farlo, mai. E poi in me convivono da sempre, e si nutrono a vicenda, due grandi passioni: il teatro e la fotografia. Ho cercato di coltivare entrambe parallelamente, anche se in periodi diversi della mia vita ha finito per prevalere a volte l’una a volte l’altra. Da qui la natura spuria del mio mestiere.Faccio teatro da più di trent’anni. Come attore e come regista. Col percorso di formazione dell’attore e con l’esercizio costante in palcoscenico ho allenato “muscoli” che hanno nomi come empatia, umiltà, costanza, ascolto, fiducia, rigore, coraggio, immaginazione. Ho lottato con nemici che si chiamano pregiudizio, presunzione, prevaricazione, preclusione, preconcetto. Devo avere una avversione verso le parole che cominciano col prefisso “pre”. Dalla più confortevole e più riflessiva posizione del regista ho imparato ad apprezzare la complessità, a mescolare codici differenti per farli convergere al centro di un unico messaggio, a gestire processi creativi anche molto articolati, a entrare in empatia con le persone con le quali lavoro, ad accettare la responsabilità di un processo destinato a confrontarsi, alla fine, con un pubblico e col suo giudizio. Ho imparato a guardare lo spazio scenico come una pellicola da impressionare, per poi lentamente comporre al suo interno l’immagine destinata allo spettatore. Immagine fatta di corpi, volti, gesti, parole, voci, forme, colori, movimenti, musiche, ritmi. Ho sperimentato il potere narrativo ed evocativo della luce, la sua capacità di scolpire figure e volti, svelare e celare, in un gioco di contrasti che danno l’illusione di qualcosa simile all’onnipotenza. Se esiste un Dio credo che nel suo esercizio quotidiano di dare vita e toglierla, provi un piacere simile a quello di chi accende una luce in palco per rivelare al pubblico il profilo tagliente di Medea; lo stesso di chi fa calare il buio sui corpi privi di vita di Romeo e Giulietta. E al teatro devo molto, anche come fotografo. La mia passione per la fotografia si è nutrita di tutto questo percorso fatto in palcoscenico. Per certi versi ne è stato il completamento. Talvolta una compensazione. La dimensione continuamente “pubblica” a cui è esposto (direi sovraesposto) un attore o un regista, per me ha avuto bisogno di un contrappeso di senso opposto. Qualcosa che mettesse me al riparo, mi nascondesse al mondo e mi lasciasse il lusso di essere spettatore di altri attori, questa volta inconsapevoli. Così nella confortevole solitudine del mirino di una macchina fotografica potevo osservare una nuova complessità, nuovi personaggi, nuovi giochi di luce, nuove coincidenze, nuove vicende umane. Il desiderio di ricomporre tutto questo in una nuova storia, scelta, immaginata da me, si è rivelato estremamente naturale. Facevo il regista giocando con frammenti catturati nella realtà. Selezionati e bloccati da uno scatto. Il mio. La strada per arrivare a sentire l’esigenza di assegnare a una fotografia un senso “altro”, un germoglio di nuovo senso per il fatto stesso di accostarla ad altre (due) e costruirne trittici, è maturata tardi, solo negli ultimi tre anni.

Prima era la ricerca della coincidenza nella realtà a guidare la mia mano nell’attimo dello scatto. Ero maggiormente attirato dalle casualità che creavano geometrie inattese o riflessi ingannevoli, simili a elaborati fotomontaggi, solo che erano fatti non da un computer, ma dalla materia riflettente di una pozza d’acqua o di una finestra. E mi illudevo bastassero a se stesse. A volte è stato così. Le prime fotografie che ho esposto a Monaco di Baviera (grazie alla spinta affettuosa ma ferma di un vero professionista della fotografia come Massimo Fiorito) erano appunto giochi di luce riflessa. Il gioco che sapeva di barocco del rimpallarsi la luce, mi affascinava. Mi divertiva. In fondo mettevo in risalto quello che esisteva davvero, era solo questione di angoli di appostamento. A me diventava visibile quello che ai distratti passanti sfuggiva inesorabilmente. E a questo tavolo da gioco del caso, molto di rado erano invitate le persone reali. Preferivo vincere le mie partite con la luce usando poster, manichini, alberi, nubi, macchine e grandi vetrine. Avversari più docili e meno instabili di umore. Tutto questo in compagnia di vecchie macchine fotografiche analogiche recuperate in un cassetto in casa di mio suocero. Lui l’ho solo visto in fotografia. L’ho avvertito nelle moltissime diapositive scattate da lui nei suoi lunghi viaggi intorno al mondo. L’ho ringraziato segretamente per aver lasciato a casa alcune sue macchine fotografiche e alcune lenti di assoluto valore prima di partire per il suo ultimo viaggio, da cui non fece ritorno. Lo ha fermato un ghiacciaio in Groenlandia. Fotogramma impresso su pellicola di ghiaccio. Grazie Giorgio. E grazie Maria Giulia per avermi incoraggiato a prendere quella eredità. Spero di essere stato un onesto esecutore testamentario. Le persone sono entrate nei miei scatti piano piano, quasi di soppiatto. Fino a diventare i miei soggetti preferiti. Forse anche grazie alla attività di ritrarre volti in studio, dove tornavo a maneggiare la luce come in un piccolo teatrino privato. Questo è stato un tempo segnato dal passaggio al mondo del digitale (quando ancora muoveva i suoi primi passi, e io con lui). Intanto cresceva la mia attività teatrale e con essa le opportunità di visitare angoli lontani nel mondo: Argentina, Cile, Uruguay, Canada, Sud Africa, Messico, Cuba, Guatemala. Tutti luoghi in cui sarei tornato spesso. Il mio occhio era stimolato come non mai e la “facilità” del digitale ha finito per ubriacare la mente che dovrebbe guidare l’occhio nel selezionare frammenti. Tanto forte questo smarrimento da costringermi a tornare indietro. Lasciare il digitale per tornare a scattare con una medio formato, pellicole 120 mettendomi nella posizione meno comoda (anche dal punto di vista ergonomico), per riaffermare il primato del fotografo sullo strumento. Lezione che da allora non ho più dimenticato, anche a distanza di anni quando sono tornato allo scatto fatto di bit. Un ritorno forzato dal furto di tutte le mie macchine analogiche. Ma ormai avevo gli anticorpi. Utilissimi anche quando sono entrati nell’uso comune oggetti come l’iPhone, fedele compagno in molte avventure. Ora mi muovo solo con la mia Leica M9 e con una 50 mm. Una coppia perfetta per la streetphotography, disciplina nella quale non smetto di sperimentare e di scoprire nuovi orizzonti. La mia vera passione. E da qui nascono il progetto Stre3t Photography e il progetto Poethree, che del primo è probabilmente l’ultimo atto. Stre3t è un movimento, un’oscillazione, una sospensione. In 3 tempi. Lo scatto, Movimento. La ricomposizione, Oscillazione. La visione, Sospensione. Questo in sintesi il concept di Stre3t. Confesso che la parte più interessante è stata quella del tempo della composizione dei trittici. Riguardare gli scatti alla ricerca di un legame che potesse dare loro una nuova vita, è stato un esercizio di lettura e di riscrittura delle mia fotografie che mi ha sorpreso. Di volta in volta scoprivo richiami di tipo diverso: estetico, narrativo, emotivo, cromatico. Una regola del gioco mi si è imposta, senza volerla: i trittici rispondevano ad una unità di luogo e non di tempo. Mi ritrovavo a collegare scatti fatti magari a distanza di molto tempo ma appartenenti allo stesso luogo, se non

proprio la stessa città, certamente lo stesso Paese. Il risultato è stato a volte divertente, a volte molto profondo, a volte poetico. Ogni trittico ha la sua storia. Che solo io conosco. Ogni fotografia ha una sua ragione di stare accanto ad altre due. Questa sarà diversa per ogni sguardo che avrà la pazienza di soffermarsi ad osservarla”.

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