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Le nuove generazioni e la desaparicion

24 aprile, 2018 - 13:23

Nella sua tesi di laurea, Carola Lofaro affronta il tema della desaparicion e lo fa con un’intervista  a Renzo Sicco che volentieri pubblichiamo, in ricordo dei desaparecidos e in vista dell’imminente replica di Più di mille giovedì a Collegno

MadresaTorino

Sul fenomeno della desaparición sono stati pubblicati molti libri, alcuni di natura scolastica, altri romanzati e per scrivere la mia dissertazione ho dovuto leggerne una piccola parte così da poter descrivere in maniera esauriente ciò che realmente era accaduto.  I miei preferiti, però, sono stati i libri contenenti le testimonianze di coloro che avevano vissuto in prima persona le sparizioni e le violenze della dittatura, tra questi “Orfana di figlio”[1] del regista e autore teatrale Renzo Sicco. Per questo motivo ho voluto inserire anch’io una testimonianza attraverso un’intervista effettuata proprio a Renzo Sicco la mattina del 17 gennaio.

Dopo avermi accolta con un caffè mi chiede di raccontargli di me e del perché io abbia scelto proprio il tema dei desaparecidos e gli spiego il mio desiderio di far conoscere questa storia dopo essere rimasta turbata dal fatto che molti miei coetanei non fossero a conoscenza del genocidio argentino. Ed è così che ha inizio l’intervista.

Sicco

In Italia, come in Europa e nel mondo, si conosceva pochissimo della storia della desaparición fino alla fine degli anni ‘90 perché si tratta di una vicenda che è rimasta celata, nonostante la crescita del potere mediatico e dell’informazione.  Il primo a portare in Italia la testimonianza di cosa accadde in Argentina durante gli anni della dittatura fu Massimo Carlotto attraverso il libro “Le irregolari”. Io conobbi Carlotto e da questa conoscenza nacque poi l’idea di realizzare lo spettacolo “Più di mille giovedì” che è la riduzione di quel libro in forma teatrale, in forma di monologo. Lo spettacolo per noi fu un lavoro di memoria ma non volevamo che fosse soltanto un impegno relativo alla memoria del passato, volevamo che incidesse anche sul presente. Era la fine degli anni ‘90 e la generazione dei ragazzi che erano nati durante la dittatura diventava maggiorenne e una parte di questi ragazzi era figlia di desaparecidos. Erano giovani che vivevano con chi li aveva accolti, un parente o l’unico zio rimasto libero, i nonni o una famiglia di vicini perché molte volte non avevano neanche più i parenti o capitava che quelli rimasti in vita, per paura, si rifiutassero di accoglierli. Già i giovani in genere non hanno delle grandi risorse, ma questi ragazzi in condizioni particolarmente difficili ne avevano ancora meno e questo faceva sì che non avessero davvero strumenti economici per creare una loro possibile organizzazione, in quanto già la loro sussistenza risultava difficile. Decidemmo, quindi, di aiutare la loro associazione a crescere e di fornirgli una sede, dei telefoni, dei fax, che erano gli strumenti che c’erano all’epoca per mettersi in contatto col mondo. Ogni sera dello spettacolo abbiamo raccolto fondi per sostenere questo progetto e finanziare la sede che è stata inaugurata con un concerto regalato da Manu Chao.

Carola

Come è arrivato in America Latina e perché ha scelto di basare l’opera proprio sui desaparecidos?

Sicco

Io sono un accanito lettore e c’è stato un momento di svolta nella mia formazione, come anche in quella della mia generazione, ovvero il libro “Cento anni di solitudine” dello scrittore colombiano Gabriel García Márquez, il primo grande romanzo latino americano ad avere un grandissimo successo anche nel nostro paese. Questo libro mi ha fatto conoscere il Latino America e me ne ha fatto innamorare, così ho iniziato a leggere anche tutti gli altri libri di Márquez e di molti altri scrittori latino americani. Inoltre, avendo vissuto per alcuni anni a Barcellona, avevo una componente ispanica dentro di me molto forte. Diciamo che c’è sempre stata un’attrazione verso il sangue latino americano piuttosto che per la mistica mediorientale, indiana o asiatica. A un certo punto il desiderio di visitare quei luoghi era divenuto estremamente forte, così mi regalai il mitico viaggio della Patagonia, il mio primo viaggio in Sud America avvennuto nel 1997. Feci una bellissima vacanza per venticinque giorni ed essendo rimasto soddisfatto di ciò che avevo visto, gli ultimi cinque decisi di sfruttarli in qualcosa che fosse utile per il mio lavoro. Una di quelle era conoscere le madri, quindi dal Cile mi spostai a Buenos Aires e andai a incontrale. Mi ritrovai in questa stanza, davanti al famoso muro colmo di foto rappresentanti tutti i desaparecidos. L’impatto fu bestiale e potentissimo e, guardando quelle immagini, mi resi conto che la mia unica fortuna era stata semplicemente quella di nascere in un altro paese, perché quei ragazzi avevano la mia età e io sarei potuto essere una di quelle fotografie. Inoltre, ciò che mi colpì fu realizzare che il 40% della popolazione argentina è di origine italiana, quindi la desaparición rappresentò la più grande strage di italiani dopo il secondo conflitto mondiale, un dato che non mi lasciò indifferente. Decisi quindi di prendere un impegno con loro perché bisognava ricordarli e non permettere che la loro storia venisse dimenticata e questo impegno nacque dopo il mio ritorno in Italia. Era appena uscito “Le Irregolari” di Massimo Carlotto, ci incontrammo ma non pensammo subito a realizzare lo spettacolo: per due anni partecipammo insieme ai vari festival per raccontare la desaparición in un lavoro di informazione. Successivamente mi recai a Cagliari, dove Massimo viveva perché si era sposato con una ragazza sarda, per realizzare uno spettacolo molto divertente scritto da Alessandro Bergonzoni. Massimo venne a vederci e poi a salutarci nei camerini alla fine dello spettacolo, ma aveva una faccia davvero triste ed ero preoccupato che fosse perché non aveva gradito lo spettacolo. Gli chiesi spiegazioni e mi rispose che la sua tristezza era causata dalla notizia della morte di due madri e in quel momento nacque in me spontaneo dire «Bene, se la loro voce diminuisce, noi possiamo aggiungere la nostra di voce: perché non prendiamo il tuo libro e non lo trasformiamo in uno spettacolo?” e lui fu subito molto entusiasta dell’idea ed è così che nacque, in pochissimo tempo, “Più di mille giovedì”.

Carola

Oltre agli hijos, però, lei è stato a stretto contatto con molte delle madri. Perché ha scelto di raccontare proprio la storia di Taty Almeida?

Sicco

Taty fu il risultato di un processo perché la prima madre che conobbi fu Hebe de Bonafini. Successivamente avvenne l’incontro anche con Estela Carlotto e ci fu un avvicinamento con le madri di Línea Fundadora. Le due entità erano abbastanza incompatibili. Io non feci una scelta personale, rispetto il percorso di Hebe e delle madri che stanno con lei, però lavorando con gli hijos e gli altri organismi mi trovai ad essere molto più collegato con le madri di Línea Fundadora. Fu così che conobbi Taty con cui si stabilì anche un rapporto umano molto forte e mi venne naturale intervistare lei. La scelsi soprattutto perché Taty è una donna molto attiva e presente nelle lotte e nelle campagne e a un certo punto, alcuni anni fa, mentre le madri stavano invecchiando, perché le madri sono ormai molto vecchie, mi fece una battuta e mi disse «Tutte hanno fatto un libro sulla loro storia e io non ho mai avuto il tempo di farlo» e allora le risposi «Ti intervisto e lo facciamo».

Carola

Ha mai assistito a una delle manifestazioni in Plaza de Mayo?

Sicco

Io ho partecipato a molte manifestazioni in Plaza de Mayo con le madri e con migliaia e migliaia di persone e ho partecipato anche agli escrache degli hijos, queste manifestazioni non violente ma importanti di denuncia e smascheramento. È stata un’esperienza esaltante perché senti una forza di una parte della nazione argentina che non vuole dimenticare, che vuole la difesa di certi valori e vuole giustizia. Poi come sempre questa è una parte della società argentina, perché, come possiamo vedere anche nel presente, passano molte volte dei messaggi sbagliati per scopi politici che calpestano i diritti umani e la giustizia.madres40

Carola

Quindi ad oggi si può dire che le madri non siano ancora pienamente sostenute.

Sicco

Ci fu una lunga fase in cui gli argentini ritenevano ciò che dicevano le madri mera propaganda  politica castrista e che i comunisti stavano gettando fango sulla società. Successivamente fu dimostrato quanto questo fosse falso e per un periodo predominò un senso di colpa molto profondo in chi non aveva fatto niente per aiutare, sempre con la giustificazione del “por algo será”, se sono stati presi ci sarà stato un motivo. Ad ogni modo, nella società argentina è rimasta una profonda divisione e la destra attuale gioca molto sulle difficoltà economiche dei cittadini con frasi come «i diritti umani ci fanno spendere dei soldi inutili» facendo riferimento ai finanziamenti in sostegno degli organismi e ai viaggi premio che le madri compiono in giro per il mondo, quindi insinuano questa nuova visione che mantiene vivo l’odio e la distanza. Oltretutto ci sono stati, come sempre accade, anche degli scandali come quello riguardante il tesoriere di Hebe accusato di aver usato dei soldi dell’associazione. In questo tipo ti organizzazioni dove la trasparenza è fondamentale, questo genere di episodi viene strumentalizzato e utilizzato inevitabilmente contro di loro e alimenta una parte della società che rimane molto ostile a ciò che esse sono e rappresentano.

Carola

Come è stato ascoltare la testimonianza di Taty?Renzo-madres

Sicco

Io mi sono trovato moltissime volte a parlare con loro per quanto riguarda il lato  organizzativo e per le manifestazioni, quindi c’è sempre stata una parte militante nel nostro rapporto, ma ci sono stati anche molti momenti in cui ci siamo potuti lasciar andare dal punto di vista personale e umano e lì l’emozione diventa molto forte perché hai accesso a confessioni devastanti, perché entri non solo nella conoscenza ma anche nel rapporto con quel dolore che rimane insoluto. Ad esempio, c’è un momento nell’intervista in cui ricordiamo una madre che si è suicidata e quello è stato per Taty un momento di intensa drammaticità e lo è stato anche per me.

In America Latina ho conosciuto sia le madri sia i sopravvissuti ai campi di detenzione clandestina che hanno vissuto in condizioni umane terribili e, da questo, ho imparato una cosa che mi è servita poi anche nel mio lavoro: ho imparato a non fare di queste persone degli eroi, ma a mantenerli sul piano della loro grande umanità perché quando conosci queste persone ti viene dal cuore porgli un’unica domanda ovvero come abbiano fatto a  sopravvivere quando il livello di tortura era tanto mostruoso, e ciò che ti aspetti è una risposta da realismo socialista che incarna l’eroe di massa, mentre invece le risposte sono sempre state assolutamente molto quiete e molto umane. La maggioranza delle persone mi ha risposto che era stata salvata da una parola, una poesia, una pagina di un libro che ripetevano nella mente mentre venivano torturati o mentre sentivano le grida di dolore degli altri, ed è stato questo a trasmettermi l’importanza salvifica della parola, che per una persona che lavora con le parole, regista teatrale e scrittore, è una cosa fortissima. Noi, qui in Occidente, abbiamo perso la potenza della parola in questo senso perché per noi, oggi, la parola è un bombardamento, è una pubblicità continua, sono i politici che raccontano una cosa che il giorno dopo smentiscono e di conseguenza intendiamo la parola come qualcosa di manipolabile e non salvifico. E invece in quel momento lì tu ti rendi conto che la parola salva. Inoltre io recentemente ho avuto un tumore, quindi sono stato in una situazione estrema e mi sono accorto di quanto, anche qui, quando sei in una situazione così difficile la parola torna ad avere un’importanza salvifica, non solo per te ma per qualsiasi altro malato e ne diventi inevitabilmente consapevole. E questa  per me è stata la più grande lezione del mio vivere in Sud America.

Carola

In base alle testimonianze che ha raccolto, ce n’è stata una che l’ha colpita particolarmente?

Sicco

Sicuramente ce n’è stata una che ho vissuto che è stata straordinaria. Alcuni anni fa organizzammo una mostra fotografica con i figli dei desaparecidos e ospitammo qui alcuni hijos e due di queste ragazze vivevano qua a casa mia. Torino iniziava ad avere la sua movida quindi tutte le sere eravamo in giro per locali. Un pomeriggio chiamai per sapere dove incontrarci la sera e Paola, una delle due ragazze, mi rispose dicendo che quella sera saremmo rimasti a casa perché dovevamo parlare. Io pensai dovessimo discutere di qualcosa di organizzativo dato che in quel periodo le scuole le invitavano per realizzare delle conferenze. Arrivai a casa, proprio nella stanza in cui siamo ora, mangiammo e a un certo punto Paola mi disse «Tu sai che io non ho mai avuto un padre, che per tutta la vita ho desiderato qualcosa che anche gli altri ragazzi come me non possono avere, ma adesso l’ho trovato: sei tu e ti adotto!». E quindi io sono un raro caso di padre adottato, che non ha adottato ma che è stato adottato. Anzi, adesso sono anche nonno perché Paola si è sposata e ha avuto tre figli, quindi sono nonno di tre bellissimi nipotini.

Carola

Quindi siete rimasti in contatto e continuate a vedervi?

Sicco

Certo, io ho grandi rapporti con tutte le persone che ho incontrato e nutro un forte rispetto nei loro confronti. A un certo punto, però, devo ammettere che io e Gisella[2] ci siamo dovuti fermare per un po’ perché il carico di dolore che ci veniva buttato addosso era ingestibile psicologicamente per noi, rischiavamo di farci trascinare in un baratro di complicazioni molto profonde dal punto di vista emozionale a prova del fatto che non sono vicende che ti passano sulla pelle come acqua su di un impermeabile e di conseguenza il rapporto con loro diventa molto impegnativo.

Carola

Nell’intervista Taty Almeida afferma che in Europa si può fare militanza attraverso l’arte e il teatro: qual è la sua considerazione in merito? Pensa che la sua opera faccia parte di questo genere di militanza?Taty Almeida

Sicco

Un’opera teatrale deve essere in primo luogo un’opera artistica autonoma e deve avere un suo senso. Il teatro vive di grandi storie e quelle delle madri lo sono. Abbiamo dovuto fare un grande sforzo nella realizzazione dello spettacolo perché “Le Irregolari” è un racconto collettivo con numerose interviste che Massimo ha fatto a tante madri, e noi abbiamo cercato di unificarle in uno solo. Eravamo in una fase dove si rispondeva alla crisi del teatro scegliendo i monologhi, perché è chiaro che costi meno uno spettacolo con un solo attore piuttosto che uno con tanti attori. In questo caso noi ci trovavamo di fronte a una storia collettiva che sarebbe dovuta essere stata raccontata da diverse persone. La scelta del monologo è stata molto ragionata, non per risparmiare, ma perché in questo caso, secondo noi, era necessario: una madre che rappresenta tutte le madri proprio come loro che si dichiarano madri di tutti i desaparecidos. Per questo motivo ci sembrava importante unificare il suddetto concetto, anche per dare più rilevanza alla doppia natura presente in una madre: quando è in piazza, in una scuola, in una fabbrica, in una situazione in cui rappresenta il movimento ha una vitalità, una forza incredibile che quella lotta le conferisce; tuttavia, quando chiude la porta di casa sua, rientra nella sua storia che è una storia di solitudine, di vuoto, e quindi ci sembrava importante rappresentare tutto questo con una sola persona. È chiaro che il risultato è stato uno spettacolo artisticamente molto potente e molto forte nonostante abbia annullato moltissime norme del teatro, in quanto ci premeva che fosse uno spettacolo “militante”, che fosse possibile realizzare in qualsiasi luogo lo richiedesse: il cortile di una fabbrica, l’interno di una biblioteca e che non avesse bisogno di grandi scenografie: un tavolo, il vuoto di una cucina e null’altro nella scena se non una donna che si racconta. Serviva un’attrice potente e noi ce l’avevamo perché Gisella prima e Anna Paola dopo, sono attrici potentissime sotto questo punto di vista e quello che ne è uscito è stato uno spettacolo assolutamente militante, uno spettacolo che ha avuto una storia straordinaria perché il teatro per sua stessa definizione è una finzione, non ha rapporto con la realtà e noi invece stavamo rappresentando proprio la realtà e siamo arrivati a rappresentarla nella stessa piazza dove quella storia è avvenuta ed è stata vissuta. L’abbiamo fatto in Plaza de Mayo di fronte a una platea che nelle prime file aveva donne con il fazzoletto bianco in testa e con alle spalle la Casa Rosada: era il racconto della realtà nella realtà. Tutto questo  negava quasi il senso del teatro ma ha sicuramente contribuito ad aumentare enormemente la potenza dello spettacolo.

Carola

Dopo la presentazione di Più di mille giovedì a Buenos Aires, molte formazioni hanno iniziato a lavorare sul teatro della memoria: pensa di esserne stato un iniziatore o, per lo meno, un aiuto di fondamentale importanza per una presa di coscienza da parte degli argentini?

Sicco

Io credo più la seconda opzione. Lo spettacolo debuttò nella rassegna estiva a Rivoli il primo luglio del 2000. Vennero a vederlo ovviamente anche molte persone che erano in qualche modo legate alla vicenda. Marco Bechis, autore del famoso film Garage Olimpo, fu il nostro testimonial nella sera del debutto, quindi ci trovammo in  perfetta sintonia con questa grande attenzione che in quel momento si stava risvegliando sulla tematica. Ci fu un parlamentare che seguiva a Roma il processo contro i militari argentini e che ci conosceva, il quale ci propose di rappresentare lo spettacolo in Parlamento, quindi quest’opera vanta nel suo percorso anche questa particolarità straordinaria di essere il primo spettacolo ad essere stato realizzato dentro al Parlamento in occasione dell’arrivo in Italia di Estela de Carlotto la quale, essendo una donna estremamente intelligente, capì quanto sarebbe stato importante realizzare lo spettacolo nel suo paese più che in Italia e quindi ci invitò in Argentina e noi ovviamente accettammo subito. Partimmo all’inizio di ottobre dello stesso anno e debuttammo in un teatro argentino. Estela ci invitò perché sapeva benissimo che nel suo paese era ancora presente del negazionismo, e un gruppo italiano in un paese che adorava l’Italia e la sua cultura, che si impegnava a raccontare questo tipo di storia, non stava certamente facendo propaganda politica, ma stava dichiarando una dolorosa verità e questo per la stampa fu molto importante. Inoltre, per fare lo spettacolo, avevo bisogno di alcune voci off che in quello italiano erano state registrate da attori italiani. Io mi recai lì prima, lavorai con degli attori argentini che mi misero a disposizione le loro voci. Tutti lo vollero fare gratuitamente, non accettarono nessun tipo di pagamento perché era un lavoro che stavano facendo per le madri, ed ecco il primo tassello di solidarietà: riconoscere la necessità del proprio lavoro al fianco delle madri, esattamente quello che avevamo fatto noi. In secondo luogo, quando presentammo lo spettacolo, molti attori si resero conto che era importante non vergognarsi della propria storia ma, al contrario, utilizzarla come materiale teatrale e la Carlotto, insieme alle madres e alle abuelas, si rivelarono molto intelligenti nel cercare di finanziare e sostenere queste iniziative attraverso un’attività definita poi “teatro per la verità”. Di certo questa non è stata una volontà supponente di dire «noi abbiamo fatto questo e voi no», ma aprire una strada e indicare un modo di lavorare in questo ambito trovo che sia stato molto importante sia in Argentina sia in Italia.

Carola

In “Più di mille giovedì”, il monologo finale racconta uno dei famosi “voli della morte”. Non era preoccupato di un’eventuale reazione negativa da parte delle madri nel veder rappresentato uno dei possibili scenari della morte dei propri figli dato che si erano sempre impegnate a reclamare una loro aparición con vida

Sicco

Le madri ricevevano sempre i testi da visionare prima che noi li rappresentassimo, quindi c’è sempre stato un rapporto di estrema correttezza con loro ed esse ci hanno corretto e dato indicazioni su cose che ritenevano fossero inappropriate. Per quanto riguarda il monologo c’è stata una discussione di due giorni. Sicuramente è stato devastante per loro leggere quelle pagine, esattamente come è devastante per un ragazzo essere ritrovato con un’identità differente quando ormai ha trent’anni e ha già vissuto metà della sua vita. Molti si domandano perché le nonne continuino a cercare i nipoti e non li lascino vivere in pace, ma esiste una priorità che è la verità. La verità non può soccombere di fronte alla paura e quindi anche in questo caso la scelta è stata quella di mettere in scena la verità e raccontare questo ipotetico volo. Ovviamente è l’unica parte dello spettacolo in cui non usiamo un testo che sia reale, cioè tratto da parole reali, interviste e fatti realmente accaduti perché non esiste testimone che sia tornato da un viaggio di quelli organizzati sull’oceano.Mas de mil slide

Carola

Lo spettacolo ha avuto più di duecentottanta repliche: ce n’è stata una che le è rimasta impressa in maniera positiva o negativa? Può raccontarmi qualcosa dello scontro in Uruguay?

Renzo

Ci sono stati dei luoghi che hanno avuto una forza incredibile come l’Esma. Il luogo più forte però è stato La Perla a Cordoba, una struttura che porta un nome contraddittorio in quanto fu uno dei campi di detenzione più tremendi : si entrava con la consapevolezza che all’80% si sarebbe morti. Siamo stati i primi a riaprirlo al pubblico perché le madri di Cordoba avevano espresso la volontà, come con l’Esma, che non andasse distrutto, ma di fare in modo che diventasse un luogo di memoria. Ed è proprio per questo motivo che ci chiesero di realizzare lo spettacolo come atto di inaugurazione del museo della memoria. Quel luogo era così carico di paura e di terrore che si presentarono pochissime persone allo spettacolo e chi era presente ricordo che tremava. Ci trasmetteva questa sensazione terribile anche solo transitare davanti a La Perla con il pullman: molte persone mi raccontavano che quando arrivavano nella zona della struttura si creava un silenzio che non si rompeva fino alla fine del viaggio, questo per sottolineare che certi luoghi sono carichi di una simbologia che va sottopelle e quindi, anche per me, quella rappresentazione fu molto forte. Anche lì erano presenti degli hijos che ci hanno aiutati a realizzare lo spettacolo. Successivamente siamo tornati a Cordoba diverse volte e abbiamo fatto lo spettacolo con tantissimo pubblico ed è scattata una grandissima solidarietà.

Lo scontro invece è avvenuto non con l’Uruguay, ma con un rappresentate del nostro paese che non era neanche il direttore dell’istituto italiano di cultura, perché in quel momento quel posto era vacante, ma con la persona che ne svolgeva le funzioni, ovvero una donna italo uruguayana, moglie di un parlamentare. Ella mi accusò di essere un provocatore e di riaprire ferite che il paese aveva ormai sanato e che non dovevo permettermi di farlo. Io ne parlai con Taty e realizzammo autonomamente un tour in Uruguay con spettacoli accompagnati dalla sua testimonianza che raccontava in prima persona la storia argentina e questo dimostrava la falsità di quelle affermazioni.

Si conclude in questo modo la mia intervista a una grande personalità del teatro piemontese e internazionale, ringraziandolo infinitamente per il tempo dedicatomi e per la pazienza e disponibilità nel rispondere alle mie domande.

 

[1] Al suo interno vi è la storia di Taty Almeida, una delle madres di Plaza de Mayo, un dialogo tra l’autore e lo scrittore Massimo Carlotto e il testo dell’opera teatrale Più di mille giovedì.

[2] Gisella Bein è stata l’interprete di Più di mille giovedì nella sua prima fase di presentazione, quella più presente in Argentina.

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