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Il giardino incantato

14 maggio, 2016 - 08:17

Questo racconto ha ricevuto una Menzione della Giuria del Premio Piemonte Letteratura per la sezione Narrativa breve su Identità e Territorio. Tale premio verrà consegnato il 14 maggio alle 15.30 presso la GAM di Torino. Il racconto fa parte della raccolta di storie di numerosi scrittori torinesi curata dallo stesso Renzo Sicco ed edita da Claudiana con il titolo “Cieli su Torino

 

Sono nato e cresciuto nella stessa strada di Torino abitando prima al numero 12 e trasferendomi, all’inizio dell’adolescenza, al numero 10. Dai balconi delle due case, rivolti nella stessa direzione, il paesaggio è rimasto e lo stesso. Il grande palazzo scuro dell’ospizio detto dei “Poveri Vecchi”, i giardini dove noi bambini giocavamo osservati dalle madri perché non finissimo in strada, le Alpi al fondo, nitide nei giorni di vento e bianche di neve tra dicembre e marzo. Ancora oggi lo puoi scorgere così. Appena al di là del muro divisorio del cortile delimitato dai garage si poteva scorgere una villetta a due piani in muratura scura con un ampio terrazzo ed un grande giardino con un alto pino al centro.

Per anni è stata abitata poi improvvisamente un mattino abbandonata. Lo capii dal segnale preciso dell’arrivo di decine di gatti famelici nel nostro cortile. Fu quella un’occasione di socialità per il caseggiato e prevalse la linea degli scodellini di latte e dei cibi avanzati per sfamare le creature rimaste orfane della loro padrona, la vecchia proprietaria della villa. Due altri fatti presero corpo in quegli anni. Dapprima la decadenza in cui cadde il giardino circostante la villa. Infatti, licenziati i giardinieri, le piante e le siepi persero via via le loro forme ordinate divenendo nel tempo un’intricata foresta. Poi il fatto che noi, “i ragazzi del cortile”, stavamo crescendo e la nostra altezza ci permetteva balzi e scavalcamenti prima impensabili. Cresceva anche il nostro coraggio che favoriva, contro tutte le indicazioni degli adulti, dapprima rapide poi sempre più lunghe ed ardite incursioni al di là dei muri di cinta, in quello che per noi era un giardino incantato. Di tutte le ore passate al di là del muro proibito ricordo ancora lo stupore e il fascino che esercitavano su di me le piccole viole bianche che a primavera tornavano a fiorire tra le erbacce sempre più rigogliose.

Poi un giorno vennero le ruspe e le scavatrici, la villa crollò pezzo a pezzo sotto i colpi di un’enorme palla di ferro. Era uno spettacolo triste ed esaltante al tempo stesso. Triste perché scompariva il nostro maniero ma esaltante perché per noi, nati dopo la guerra, era la prima vera immagine di devastazione e i nostri occhi rimanevano incollati alla gigantesca palla di metallo che, agganciata alla gru, si schiantava impetuosa contro la casa, sbriciolandone le pareti.

Anche l’altissimo pino al centro del parco venne abbattuto.

Mia madre e le vicine si lamentarono per alcune settimane della polvere che entrava in ogni dove e impediva di stendere il bucato, ignare che ben altra piaga avrebbe ben presto attaccato il condominio.

Infatti quel turbamento ambientale produsse una fuga epocale di topi e scarafaggi che traslocarono negli invasi delle pattumiere, disperdendosi nelle murature, divenendo affittuari indesiderati di tutti gli alloggi del nostro palazzo e di quelli contigui. Fu la prima volta che capii il senso disperato delle grandi migrazioni e la tragica incomunicabilità tra indigeni e nuovi arrivati. Lezione che ha incrociato molte volte il mio lavoro di questi anni che a sua volta ha intrecciato sovente destini di migrazione e disagio dentro altre terre.

Arrivarono marziani con tute e strumenti di disinfestazione. Alla strage seguì il silenzio e il vuoto dentro i nostri occhi ancora troppo bambini. Avevamo perso un giardino incantato e vedevamo crescere sulle sue ceneri un cantiere. Un enorme freddo palazzo si portava via un pezzo di antico che nessuno aveva saputo e voluto difendere, il progresso vincente triturava la storia e mutava l’uso dello spazio, dove c’era una vita ne poneva cento.

Noi bambini non lo sapevamo, ma quel costruire si chiamava “miracolo economico”, era la nuova Italia che avanzava, era uno di quei momenti in cui la storia subisce una violenta accelerazione diventando drammatica e burrascosa.

Il magnete fabbrica stava producendo ben più grandi migrazioni, madri di ben più consistenti mutazioni e cambiamenti.

Con l’incanto del giardino scompariva anche quell’ingenuità sociale che ho ritrovato in angoli di mondo che chiamiamo “terzo”, angoli in cui mi piace scavalcare il recinto per coglierne, con lo stesso stupore, piccole viole bianche che riescono a crescere ancora.

 

Renzo Sicco

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