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Con le Mani

17 giugno, 1999 - 16:57
testi: Renzo Sicco, Gabriele Romagnoli, Fabio Arrivas e Marco Alotto
regia: Renzo Sicco e Michal Znaniecki
realizzato da Gisella Bein, Luca Fagioli, Monica Fantini, Marco Pejrolo,
Lola Gonzalez Manzano, Manuela Massarenti Fabrizio Monetti, Luigi Piga,
Paolo Sicco, Cristiana Voglino, Paolo Martini, Roberto Leardi, Daniele Brizzi
musiche: Armand Amar, Franco Battiato, Banda Ionica, The Cure, King Crimson
 

Il “Quarto Stato” di Pellizza da Volpedo, icona del lavoro, icona del mondo sindacale, è stato dipinto 100 anni fa. Pellizza da Volpedo è un pittore divisionista. Il divisionismo sminuzza il dipinto in piccolissimi tratti di colore che l’occhio, con lo sguardo, ricompone in unica immagine ricca di tutte le sue luci ed ombre.
Fellini, in uno dei suoi capolavori Amarcord, racconta e ricostruisce in un piccolo paese emiliano l’intera storia dell’Italia degli anni quaranta disegnando tante piccole storie, pennellando personaggi simbolici di quelle perversioni ed ingenuità che creeranno l’humus necessario allo sviluppo del fascismo, della guerra e dei guasti conseguenti. Nashville di Altman, le pitture di Hieronymus Bosch e altri ancora sono i tanti possibili esempi a cui ci siamo ispirati per comporre questo spettacolo che è un affresco di una realtà composita e multiforme quale il mondo dell’artigianato. Quel mondo diffuso e disarticolato senza grande visibilità ma che rappresenta una colonna vertebrale del mondo del lavoro, una colonna di resistenza che riemerge sulle prime pagine della cronaca quando un qualche black-out, rende necessaria all’esistenza stessa della società il senso primario del lavoro, il fare con le mani.

Ogni storia è la storia di qualche viaggio. Sia che si tratti di lunghe migrazioni collettive, di un vagare di popoli nello spazio e nel tempo, alla ricerca di sé, delle proprie speranze più chiare, o di un habitat appena congeniale. Sia che si tratti di un tuffo interiore, in qualche memoria sepolta, magari ancestrale: sulle tracce o alla volta di una casa di dove si crede venire. Ogni nostro viaggiare fa parte di un più vasto movimento; e si dipana ansioso dentro un viaggio più grande. La natura raminga delle cose – il corso degli astri, il divampare del fuoco, il liquido andare dell’acqua, l’aria spinta dal vento, lo sgretolarsi stesso della roccia in finissima sabbia si rispecchia puntuale nell’ondeggiare dei nostri pensieri. Ed è in questo moto perpetuo (così perpetuo da stimolare, a volte, una sorta di immobilità), che come può, la vita di cui disponiamo si aggiusta. E tenta le sue scelte: che sono, probabilmente, sempre arbitrarie. Ma hanno l’aria di presentarsi, spesso, vestite di una forma assolutamente necessaria.

La creazione ed il debutto di questo spettacolo sono avvenuti dentro una ex fabbrica torinese, un luogo fatiscente di abbandono post industriale. Tra le mura delle ferriere abbiamo installato un quadro contadino, abbiamo trasformato il rumore in suoni e le macerie in luoghi in cui raccontare i terremoti del mondo. Da sempre ci piace utilizzare ex luoghi per il teatro, e non per puro segno estetico ma, per fare riemergere tra gli scarti le cose perse per strada, eliminate o marginalizzate dalla corsa verso il futuro, alla ricerca di una emozione che sappia restituirci almeno in parte ciò che ormai è sommerso.

Mi ha molto colpito in un recente viaggio in Perù scoprire che uno dei problemi derivanti dal disboscamento della foresta amazzonica é la moria di pesci dovuta alla scomparsa di frutti caduti sul pelo delle acque.
Viene naturale chiedersi “Cosa può centrare la frutta coi pesci?” Non si mescolano terra e acqua e gli uni guizzano nei fiumi, nei laghi, nei mari e gli altri crescono sulla terra, dunque? Dunque scopri che ti hanno sempre mentito o meglio che ti hanno raccontato il mondo da un solo punto di vista. Meravigliosamente il mondo ne ha di più giacché nei fiumi amazzonici i pesci si cibano della ricca e polposa frutta che la foresta generosamente regala anche alle acque. Alcune specie hanno addirittura mutato la loro conformazione, rafforzando le mascelle per poter mangiare oltre la polpa anche i torsoli o i noccioli dei frutti. Ho sempre creduto che la realtà sia straordinariamente più variegata di quanto non pensiamo e credo fermamente a quegli scrittori fantasiosi e immaginifici che, parlando di sé, sono però soliti dire che non inventano nulla ma osservano o se inventano scoprono a volte con immenso divertimento come la realtà sappia quasi sempre superare e spiazzare la loro stessa immaginazione. La storia dei pesci che mangiano la frutta mi ha sorpreso perché non è solo la concretizzazione di quel fascino fantastico sud americano che Garcia Marquez ci ha saputo così bene inculcare ma è anche la metafora più profonda di come sia difficile chiudere e incanalare le energie del mondo dentro l’omologazione. Ci saranno sempre pesci che sapranno mutare dentatura, uccelli o rettili che sapranno mutare colori e uomini che sapranno inventarsi nuovi lavori. Ecco perché in questo spettacolo che parla delle mille mani che fanno mestieri, al più curiosi ma di certo fuori moda, mestieri comunque necessari alla sopravvivenza, ho voluto parlare dei pesci amazzonici. Perché guardare ciò che non conosci, guardarlo con interesse, curiosità, con allegria è ciò che ci salva. Infatti il vero pericolo omologante è quello di guardare soltanto chi ci assomiglia, vivere l’abitudine di navigare solo le nostre acque con la convinzione che le nostre mappe siano l’unica verità.

Renzo Sicco

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