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anniversari

  • Van Der Graaf Generator “Pawn Hearts”


     
     

    VAN DER GRAAF GENERATOR

    Nel settembre 1971, ovvero  ben 40 anni fa, i Van Der Graaf Generator pubblicarono il loro capolavoro “Pawn Hearts”.
    Partiti quasi come un progetto solistico del loro leader, Peter Hammil, i Van Der Graaf si consolidarono nei primi tre dischi centrandosi  sulla sua voce incredibilmente strumentale e sul sax di Davide Jackson, all’epoca totalmente sperimentale.” Pawn Hearts” e’ un album epocale e sconvolgente per complessità e forza innovativa.
    Si può ben considerare un gioiello musicale, fuori dai canoni di un movimento o un’estetica precisa. All’epoca forse anche per la presenza  di Robert Fripp venne inserito in quel filone prog-illuminato tra King Crimson e Genesis , ma il tempo ha poi dimostrato le sue peculiari qualità davvero uniche.
    “Pawn Hearts” squaderna completamente le formule centrifugando psichedelica, progressive, jazz, soul, sperimentazione in una cavalcata oltre le coordinate di spazio e di tempo ben raffigurate dalla lunga suite “A plague of light house keeper”.
    A quattro decadi di distanza, dopo una reunion e un tour dignitoso della formazione originale, rimasti in tre per la defezione di David Jackson, hanno recentemente pubblicato un nuovo album “A grounding in number” un lavoro molto differente, un album di canzoni, ben 13, che durano mediamente 3/4 minuti.
    “Sono cambiati i tempi – dicono – la musica oggi sceglie altre strade, più dirette. Non ci arrendiamo alle regole del mercato, abbiamo semplicemente deciso un diverso approccio. Non dobbiamo più dimostrare di essere i più bravi o i più originali attraverso brani di 15/20 minuti. La nostra nuova sfida consiste nel suonare come un trio rock senza abiurare il passato”.
    Chi ha amato e ascoltato “Pawn Hearts”, “Godbluff” o “Still Life” non rimarrà deluso ma i termini di comparazione sono lontani da quegli album.
    Per chi non ha avuto modo di conoscerli ai loro tempi d’oro è sicuramente un’opportunità per sfruttare il talento di musicisti di grande qualità. Ma se da una collezione di dischi di un fratello maggiore o in un negozio ben fornito o da un catalogo su internet è possibile recuperare l’ascolto di “Pawn Hearts”, oggi che spira una forte corrente revivalista e si riscoprono Emerson Lake e Palmer e molti gruppi del passato, oggi che il successo di gruppi quali Porcupine Tree o Muse fa pensare che alcuni argomenti di quel passato non siano mai tramontati, davvero si potrà capire la lucentezza di una perla dei dischi usciti negli anni settanta dove essere primi tra nomi quali Pink Floyd, Gentle Giant, Led Zeppelin, era davvero impegnativo.

    Van Der Graaf Generator per una manciata di anni abitarono a buon diritto quell’olimpo e il loro lavoro è invecchiato a distanza meno di quello di tanti altri.

    Renzo Sicco


  • Ian Curtis

    Era il 18 maggio del 1980 quando Ian Curtis morì suicida per motivi mai chiariti e forse semplicemente legati al suo precario stato di salute.
    “Closer” secondo e ultimo album dei Joy Division si intreccia così alla morte “in contemporanea” del cantante.
    E’ uno dei più importanti album generati dal punk, un disco capace di influire come pochi altri sulla wave a venire.
    Opera seconda, e dunque nella vita di un gruppo opera critica, segue la pubblicazione del primo album aspramente poetico “Unknown Pleasures” e lo supera attraverso un carico di un’energia sotterranea che si nasconde indecifrabile tra lo scandire della ritmica e dei sintetizzatori, mentre tutto è potentemente sorretto proprio dalla suggestiva voce del cantante.
    Ascoltare, a oltre 30 anni di distanza, The eternal o Decade fa ancora venire i brividi. La voce di Ian Curtis non è meno sofferta e presente di quella di Jim Morrison e l’opera dei Joy Division, trasformatisi poi senza di lui nei New Order, è la testimonianza di un gruppo capace di superare le radici di riferimento, attraverso una percezione della decadenza tanto grande da segnare fortemente la scena musicale a venire e la nascente estetica dark.
    Bruciate in pochi mesi le ceneri del punk, “Closer” conduce la musica giovane verso una nuova partenza, ecco perché è un disco da riascoltare, per i suoi indelebili segnali di frontiera.

    Renzo Sicco


  • appunti su “Closer”

     di Mick Middles e Lindsay Roade

    Dopo la pubblicazione “Unknouwn Pleasures” erano diventati un gruppo di riferimento ma le condizioni economiche per i Joy Division erano immutate. Durante la registrazione di Closer prendevano 5 sterline al giorno, sufficienti per il cibo e per uscire a bere qualcosa, ma non per spese extra, di certo non coi prezzi di Londra, nemmeno nel 1980.
    Una misera kebab house vicino agli appartamenti serviva delle insalate di pollo alla manchesteriana per 1 sterlina, lasciando quel che bastava per un paio di birre nel pub vicino alla fine di ogni sessione.

    Anche se Closer sarebbe diventato noto in generale come uno dei classici album “depressi”, Lindsay Reade dice che all’epoca la cosa non era così evidente, per lo meno a coloro che erano piuttosto vicini alla registrazione. Hannett ricorse a un bel po’ di tecnologia potenziata per “rinfrescare” il suono base dei Joy Division, mentre la qualità ipnotica della voce di Ian e le sue canzoni intensamente personali tendevano a spingere l’album in una direzione più riflessiva. Ciò è più evidente che mai in “Isolation”, in cui una melodia piuttosto leggera, viene resa più intensa dalla performance di Ian: se si toglie la sua voce, potrebbe essere quasi un pezzo pop.
    Tony Wilson pensava che con questo pezzo martin avesse creato qualcosa di rivoluzionario. “Quel che ha fato Martin, cosa di cui nessuno gli riconosce il merito, è stato inventare la musica, quella digitale. Aveva un’idea precisa. Aveva lavorato con i primi sintetizzatori e così, con i Joy Division prima e soprattutto con i New Order dopo, cominciò a collegare e a connettere i primi computer alle tastiere. Martin lo fece e per la prima volta nella storia sono comparsi ritmo e melodia su strumenti diversi. Si può sentire nella canzone intitolata “Isolation” dei Joy Division. In questo brano il ritmo proviene dalla tastiera.

    Nel 1996 Peter Hook disse “Eravamo piuttosto felici all’epoca della registrazione di Closer. Sapevamo di avere davvero un buon album era raro che una band riuscisse a fare un secondo album veramente buono, perché di solito vengono messi insieme in velocità, mentre a volte si impiegano anni per realizzare il primo. Ad ogni modo noi eravamo molto sicuri. Sapevamo come ci si muoveva in studio e con Martin eravamo a nostro agio.
    Ha rivelato Hooky “Ricordo quando gli U2 vennero in studio mentre stavamo lavorando a Closer. Gli U2 erano i migliori imitatori dei Joy Division. Erano molto “joydivisioniani”. Morivano dalla voglia di incontrare il gruppo e volevano che Martin Hannett si occupasse del loro prossimo disco; vennero a trovarci e, mio Dio, erano come dei bambini. Io avevo solo ventidue anni e loro sedici…li liquidai. Le persone si dimenticano in fretta, e all’improvviso ecco che sono uno dei gruppi più famosi al mondo… cazzo, forse avrei dovuto essere gentile con loro”.
    Scaltri, percettivi e molto ambiziosi, gli U2 basarono indubbiamente le loro registrazioni di svolta sul lato più rock dei Joy Division. Curiosamente, forse gli U2, malgrado la loro maestria nello scrivere canzoni, non avevano il medesimo desiderio di innovazione dei Joy Division e i due sentieri musicali delle band si separarono quando questi ultimi cominciarono a sperimentare intensamente le possibilità dei sintetizzatori.

    Adoro “Eternal” e “Decades” e ricordo quasi tutte le parole, nonostante siano quasi vent’anni che non le ascolto. Ricordo Ian che le cantava molto tardi la sera, concentrato e con gli occhi chiusi. A volte mi sentivo privilegiata a essere lì e cercavo di lasciarlo fare come voleva e di non intromettermi, limitandomi a osservare. Penso che la gente pretenda troppo dagli artisti e dovrebbe invece essere grata di ricevere il grande dono della loro musica, di un libro, di un dipinto o dell’arte in generale. Hanno bisogno di aria, di respirare, della loro libertà.
    Quell’ultimo brano – i giovani con il fardello sulle spalle – ricorda il modo in cui Ian parlava negli ultimi giorni, con quella stessa voce sommessa, perché era talmente stanco, confuso e triste…”.
    La tecnica in studio Ian era sicuramente migliorata. Aveva, infatti, sviluppato la capacità di inserirsi nella melodia e di proiettare se stesso nel cuore della canzone, a volte allacciandosi direttamente all’atmosfera, come se le canzoni fossero state lì ad attenderlo, cosa per nulla semplice. Peter Hook, che guardava Ian lavorare in studio, in seguito avrebbe commentato così questo suo talento: “…l’opera di un maestro”.
    Il fatto che Closer sia un album creato da quattro ventenni per nulla sofisticati pare contraddire la sua pura eleganza, immutata anche dopo trent’anni.